Abbiamo incontrato Claudia Rankine a Venezia in procinto di partire per il Salone del Libro di Torino, dove presenterà in anteprima il suo pluripremiato Citizen. Una lirica americana (2014) ora pubblicato dalla casa editrice 66th and 2nd. Rankine, poetessa statunitense di origini giamaicane, è Frederick Iseman Professor of Poetry a Yale e chancellor della prestigiosa Academy of American Poetry. Oltre a Citizen ha pubblicato quattro raccolte di poesie e un testo drammatico, e collabora con numerosi artisti visivi a installazioni, video saggi e performances.

Nel 2016 ha vinto un McArthur «genius» Fellowship con cui ha fondato l’Institute of Racial Imaginary, un laboratorio culturale interdisciplinare dedicato allo studio della razza come uno dei principali modi in cui la storia entra nelle nostre vite. Per Claudia Rankine il mondo in cui viviamo è tutto fuorché post-razziale.

In «Citizen» la voce poetica pone a sé stessa domande che riaffiorano in diverse occasioni: «Cos’ha detto lui? E lei, ha davvero detto questo? … Quella cosa è uscita proprio dalla mia bocca, dalla sua bocca, dalla tua bocca?». Sono questi gli interrogativi che guidano il passaggio dal registro lirico a quello analitico e autoanalitico?
Sono le domande che un essere umano fa a un altro quando sente di essere stato cancellato, o sminuito. Non sono scatenate solo dal razzismo, ma da ogni comportamento che sminuisca o cancelli un’altra persona. Quando le senti vorresti concedere il beneficio del dubbio a chi le pronuncia, e quindi inizi a domandarti: «ma ho sentito bene?», perché tendiamo tutti a restare attaccati all’umanità nostra e degli altri e desideriamo concedere il beneficio del dubbio anche quando sappiamo che l’interlocutore o il parlante è entrato in quella modalità offensiva: razzista, sessista, anti mussulmana, ecc. Lo riconosci, perché è già successo tante volte. Queste domande avvolgono tutto il tuo essere, la tua fragilità, il tuo desiderio di stare con gli altri, di comunicare, la tua consapevolezza e la tua possibilità di realizzarti. Il passaggio da un registro all’altro avviene perché quello è un momento dissociativo. Da quella valutazione dipende ciò che accadrà dopo, perché se lo ignori torni indietro, e quel carico di informazioni resta sepolto dentro di te. Se affronti chi le pronuncia, allora entri in un dialogo difensivo, un atteggiamento difensivo bianco nei confronti delle persone nere.

Il concetto di dissociazione richiama quello di «doppia coscienza» di W.E.B. du Bois, un concetto chiave nella letteratura afro-americana del Novecento. Però la sua «dissociazione» sembra portatrice di un altro discorso…
Sì, è vero. Quando du Bois parla di doppia coscienza, si riferisce alla posizione del trickster, del truffatore, e all’idea del trickster di poter negoziare uno spazio che operi secondo codici specifici per poi spostarsi in un altro spazio, dove valgono differenti forme di enunciazione. Ma la dissociazione nasce dalla mancanza di possibilità di controllo. La uso intenzionalmente, come significante del trauma. Chi è che dissocia? I traumatizzati.

Parliamo di Serena Williams, del modo in cui – nel suo poema – il piano intimo, privato, personale, emotivo si fonde con quello strutturale, pubblico, istituzionale. Che impatto ha questo sulla forma lirica?
La fusione delle dinamiche liriche e strutturali è la genesi di Citizen. L’idea che succedessero cose terribili e le persone reagissero dicendo «come è potuto accadere?». Volevo scrivere un libro che mostrasse che, a un certo livello, il genere di disprezzo visto durante Katrina si verifica quotidianamente, a piccole dosi somministrate dalle stesse persone che si domandavano «come è potuto succedere?». Volevo che capissero che erano proprio loro, consciamente o inconsciamente, a mostrare disprezzo, ogni giorno.
Quando le cose si manifestano culturalmente, ciò accade solo perché sono le abitudini sociali a renderlo possibile. Il libro è iniziato con i poemi in prosa, quei momenti casuali che generano le domande di cui abbiamo parlato: «ho capito bene?», «starà reagendo in modo eccessivo?», proprio per mostrare l’accumulo di queste micro dosi di disprezzo, molto prima di arrivare ai neri bersaglio della polizia, o all’incarcerazione di massa. Solo disprezzo di massa. È l’organizzazione strutturale del libro. Come si fa a mostrarne l’impatto sugli individui? Nelle relazioni personali? Succede nelle amicizie più strette, al lavoro, con i colleghi…, e poi quelle persone diventano giudici, governatori, membri del parlamento – il popolo è sovrano –, e quindi quei pregiudizi entrano nelle posizioni di potere. E in più c’è il razzismo sfacciato nelle stesse posizioni di potere. Come si fa a rendere tutto ciò manifesto? Con il linguaggio.
Negli Stati Uniti la tradizione della lirica è stata fortemente condizionata dall’idea che la poesia bianca è apolitica, mentre quella nera è politica. Volevo mettere alla prova questo pregiudizio e ho preso ad esempio due poesie di Robert Lowell citate in Citizen per mostrare che sono un prodotto dell’oppressione derivante dalla sua educazione patriarcale bianca, e evidenziare che la poesia è sempre stata politica, ma politica dalla posizione di dominio bianco, che include l’idea che essere bianchi sia meglio. E se è meglio non è necessario indicare la struttura del dominio, perché è quella struttura. Ecco perché il sottotitolo Una lirica americana. Ecco il secondo pregiudizio contro cui ho scritto Citizen.

Nel poema su Serena Williams, a un certo punto c’è una frase che dice: «Ogni sguardo, ogni commento, ogni errore arbitrale affiora dalla storia, attraverso lei, verso di te». Sembra un modo di distillare la storia dentro alla parola poetica…
Questo ci permette di tornare alla gamma pronominale. Mentre scrivevo Citizen non pensavo questo, ma da allora ritengo che la posizione idealizzata del soggetto dovrebbe essere quella aperta dalla conoscenza storica nello spazio del «tu», del pronome, che dovrebbe includere tutti, affinché tutti possiamo sentire quella storia come un insulto rivolto proprio a noi, da una prospettiva nazionale, americana, e non semplicemente essere il «tu» dentro la coscienza dei neri.
Dovrebbe essere dentro una coscienza americana, che sa che conoscere la storia significa imparare che questo tipo di disprezzo va avanti dalla schiavitù, da Jim Crow alla brutalità della polizia, e dovremmo sentirlo tutti come un insulto, a ciascuno di noi. La storia dovrebbe colpirci, fisicamente, con le sue frasi. Insultarci. Non può essere gradevole. Durante la scrittura di Citizen pensavo nei termini di coscienza dei neri. Ma ora penso: no, deve essere «tu», deve essere qualsiasi «tu» americano, tutti. Tutti dovrebbero trovare intollerabile questa storia che si ripete.

Il suo lavoro si situa sulla traccia solcata da Toni Morrison sulla decostruzione della «whiteness», spostandolo anche sul piano della cultura visiva e dell’impegno pedagogico continuo. Può descriverci i suoi progetti e quelli dell’Institute of Racial Imaginary, fondato anche con il premio McArthur «genius» che ha vinto?
Una delle cose che credo manchi è la costruzione della whiteness, il suprematismo bianco, che esiste dal momento della costruzione degli Stati Uniti. È ciò che permette ai bianchi di essere considerati persone, facendo sì che gli altri siano soppesati attraverso l’ottica del razzismo. Morrison lo ha dimostrato dicendo che nessun bianco è bianco, e che i bianchi hanno un fortissimo investimento nel rendere centrale la loro posizione di privilegio, ovunque: nella letteratura e nella vita, nel governo, nell’urbanizzazione, nella legislazione.
L’unico modo di dimostrarlo è insegnarlo. Il Racial Imaginary Institute è un tentativo di uscire dall’accademia per portare l’informazione sul lavoro necessario a sopprimere la storia della whiteness. È un progetto curatoriale e itinerante che coinvolgerà artisti e pubblico e andrà dove l’informazione manca: al Sud, nel Midwest, in Europa. Ovunque.