Di fronte allo «scandalo Csm» e al connesso riaprirsi della vexata questio dei rapporti fra giustizia e politica è istruttivo cimentarsi con il recente volume di Edmondo Bruti Liberati Magistratura e società nell’Italia repubblicana (Laterza, pp. 350, euro 28). L’autore conosce assai bene la materia essendo stato, fino al pensionamento pochi anni fa, parte attiva di quel mondo delle toghe di cui analizza, con acume e ricca documentazione, le vicende dalla fine del fascismo allo scorso decennio. Giudice dal ’70, vari incarichi di rilievo successivi sino alla guida della procura di Milano, Bruti Liberati è fra i membri più autorevoli di Magistratura democratica, gruppo la cui filosofia anima il senso profondo del libro: rompere il muro che separa il terzo potere da ciò che vive fuori dalle aule di tribunale.

UNA STORIA «INTERNA», quindi, che si fa – e viene analizzata – nel suo intrecciarsi con «l’esterno» delle dinamiche politiche e sociali, mostrando come l’organizzazione della funzione giurisdizionale non sia mai un terreno neutrale, né per soli addetti ai lavori. Qui sta il pregio maggiore di un libro che dovrebbero leggere (e capire) quelli che si trastullano con la figura del giudice «apolitico» e «neutrale» da ingabbiare in una carriera determinabile dall’unico, supremo, valore della «meritocrazia». Fu invece l’impegno di un numero crescente di magistrati «militanti», che dagli anni ’60 ruppero il conformismo castale e burocratico, a far entrare la Costituzione nei palazzi di giustizia. Pienamente coscienti che la neutralità pretesa dai vertici era pura adesione al sistema di interessi e valori delle classi dominanti, le toghe progressiste ingaggiarono conflitti duri, spesso attorno a norme procedurali o a processi-simbolo (Braibanti, «la Zanzara», le schedauture Fiat, l’elenco è lungo), relazionandosi con ciò che in quegli anni si muoveva nell’opinione pubblica, nelle fabbriche, nelle scuole.
Il corpo giudiziario perse il suo carattere verticistico non per un’impossibile concessione dall’alto, ma democratizzandosi attraverso una contesa ideale e pratica, rendendo così possibile una giurisprudenza più avanzata in materia di tutela dei lavoratori, ambiente, diritti civili. Crollò la turris eburnea del suo organo di autogoverno, il Csm, che dal ’76 venne eletto con il metodo proporzionale, rispecchiando finalmente una magistratura socialmente e culturalmente più composita che nel passato. Un sistema elettorale che sarà poi modificato più volte sino al ritorno al maggioritario, voluto da Berlusconi, nel nome della «lotta alle correnti».

QUEI CAMBIAMENTI in senso democratico preoccuparono, dentro e fuori la magistratura. Il segretario del Msi Almirante fu tra i più impegnati nel criticare la politicizzazione del Csm, proponendo che a comporlo fossero «magistrati di nomina non elettiva», scelti cioè attraverso il sorteggio. Parola d’ordine tornata in voga. Il tentativo di conservare i vecchi assetti di potere si diede in varie forme, che Bruti Liberati opportunamente ricostruisce con precisione: dai trasferimenti (e successivi insabbiamenti) delle indagini più delicate sulle trame nere alle inchieste-pirata fatte con intenzioni intimidatorie, fino alle aggressioni politico-giudiziarie a magistrati o addirittura a interi Csm troppo scomodi – emblematica l’offensiva condotta dalla procura di Roma nel bienno ’82-’83 resa inefficace grazie all’intransigenza del presidente Pertini. Erano gli anni in cui il Csm faceva i conti con la P2, uno scandalo non privo di analogie con la triste attualità che abbiamo sotto gli occhi.