Giuliana De Sio, madrina del Glbt Film Festival 2013, ha ragione. Ha ragione quando dice che il cinema italiano è in sofferenza perché, specchio di un paese in via di estinzione, è afflitto da una malattia terribile chiamata conformismo. «Ci sono 4 attori e 4 attrici e quelli sono e restano. Senza nulla togliere al talento di un Servillo o di una Buy, il rischio che si corre è quello di rimanere sempre uguali a se stessi. E ha ragione quando osserva il pubblico del Glbt e lo definisce «bello, partecipativo, da dieci e lode», contro corrente nella massiccia adesione a una kermesse. In questo anche il pubblico-fan è spregiudicato «come deve essere un attore d’altro canto: pronto a spingere al massimo un’emozione».

Dice: «Mi piacerebbe che non ci fosse più la necessità di festival monotematici» È vero. Poi però c’è la realtà. E, per fortuna, ci sono anche film che questa realtà riescono a raccontarla. Any day now, di Travis Fine, è un lungo straordinario. Con degli attori straordinari e con una storia straordinaria, perché è vera. Paul Flagger è un avvocato. Rudy Donatello è una drag queen. Paul è Clark Kent. Rudy è un agglomerato di cose brutte e tristi che però lo rendono più bello e meno triste di tutti gli altri. Si innamorano in un nano secondo e poco dopo decidono di adottare un ragazzino down abbandonato dalla madre tossica. Etc etc. Il film di Fine, che negli Stati Uniti ha riscosso un grande successo, è prodotto dalla moglie; hanno deciso di occuparsi dell’argomento perché «negli Usa è un tema di attualità politica molto importante: le pari opportunità, i diritti, i matrimoni e le adozioni per i gay. A seconda delle zone, sono accettati legalmente oppure completamente negati. Ho sentito la necessità di fare un film sull’uguaglianza per trasmettere ciò che ne penso al riguardo».

«Per fare un film è importante che ci sia empatia con la storia. Anche a noi è successo, per un periodo, di essere allontanati da nostra figlia. So cosa vuol dire rivolere il proprio figlio con sé. Un problema esiste nel momento in cui c’è anche una sola persona ad averlo. Come diceva Martin Luther King, se anche una sola persona è stata discriminata è già una persona di troppo».

Sulla discriminazione stanno riflettendo, seriamente, le donne. Nel documentario di Laura Landi e Giovanna Selis Le lesbiche non esistono, l’ennesima produzione dal basso, ormai l’unico modo di lavorare nel cinema come da altre parti, Landi e Selis riflettono sulla ghettizzazione dell’omosessualità femminile a partire dalla parola. Un viaggio interessante e un’autocritica tutt’altro che sterile. «Le parole sono importanti anche quando sono un insulto». Delle lesbiche si parla poco e pochi sono anche gli epiteti con cui definirle. La parola lesbica, come dice una delle protagoniste «è una brutta parola. Ha sempre una connotazione negativa ed è faticoso anche per noi utilizzarla. Gay è più neutrale, più allegro. Sarebbe bello che ci fosse un termine altrettanto leggero anche per le donne». Certo è che le lesbiche erano e restano militanti. Per assistere alla proiezione della web fiction Re(l)azioni a catena dell’associazione torinese Badhole, hanno letteralmente occupato una sala (costringendo fuori un folto pubblico).

Le Badhole però se lo meritano. Sono brave, intelligenti e divertenti. E le loro produzioni seguono a ruota. Eliminando piagnistei di genere e pesantezze di settore, producono documentari, cortometraggi e spot. Le 4 puntate di questa web fiction sono ben girate e piacevoli. Le Badhole si occupano sì di diritti civili, non solo a carattere omosessuale, ma lo fanno con linguaggi e mezzi contemporanei, fruibili, condivisibili. Da tutti.
Le serie web sembrano essere un genere gettonato sotto la Mole. G&T, con la regia di Francesco D’Alessio, è una produzione giovane che ha esordito a dicembre su Gay.it. Che dire. Se non ci fosse quel quarto d’ora di porno soft in crescendo, qualche gentile pensionata, appassionata di tv sentimentale e indaffarata, lo apprezzerebbe. Contenuti e sguardi da «l’amore è eterno finche dura» sono il nucleo su cui ruota la puntata vista al festival. Nulla è perduto, però. Certo è che c’è un limite a tutto. Al fotoromanzo specialmente.