Fino a quando era in vita, Fela Kuti ha mantenuto la sua influenza egemonica sulla traiettoria stilistica e ideologica dell’afrobeat. Si tratta soprattutto di una questione di brevetto, perché Fela Anikulapo Kuti è l’inventore dell’afrobeat. Ma è impensabile separare queste traiettorie dalla vita del Black President. Con il termine afrobeat – una contrazione tra «african» e «beat» – Fela intendeva rinnovare il suo proposito nei confronti del discorso panafricanista. La sua musica voleva rappresentare una fonte di orgoglio culturale, non solo nigeriano. E non solo.
Quando Fela Kuti muore, il 2 agosto 1997, lascia al mondo una discografia monumentale (circa 77 album), ma certamente non inutile. Dopo la sua morte, l’afrobeat ha registrato uno slancio globale, con generazioni di musicisti, epigoni e seguaci di tutte le etnie e le estrazioni sociali, a NewYork, San Francisco, Londra, Parigi e altre capitali culturali in tutto il mondo, che hanno ricontestualizzato il genere e il celebre slogan «music is a weapon of the future» da lui coniato.
Nell’arco di oltre due decenni dalla scomparsa del musicista e attivista nigeriano, una nuova rivoluzione culturale ha preso piede in nome dell’afrobeat e Fela è divenuto la figura iconica di un movimento controculturale globale. La storia culturale locale e un’identità più ibrida e porosa, sono state rinegoziate in un genere musicale transnazionale. Perciò quando si parla di un genere che ha ampiamente proliferato come l’afrobeat, non bisogna guardare unicamente ai modi in cui si sono delineate le alleanze tra le varie scene musicali, ma anche ai processi attraverso cui l’identità musicale è articolata con e attraverso queste scene.

PUNTI DI ROTTURA
L’anno spartiacque è il 1979. Di ritorno dal concerto di Berlino (1978) il batterista Tony Allen – scomparso a Parigi il 30 aprile scorso – che aveva ricoperto un ruolo preminente nella creazione di quel suono «con una personalità africana e un appeal globale», secondo le previsioni di Fela Kuti, in seguito a divergenze ideologiche e a questioni legate ai diritti sulle composizioni e al mal funzionamento della band, compie in quell’anno un passo decisivo verso una personalizzazione del suono, rompe con il sodale di lungo corso e si mette in proprio, pubblicando nel 1980, con gli Afro Messengers, l’album, No Discrimination. Le prime avvisaglie di questa spaccatura si intravedevano già da qualche anno prima, nel 1975, quando il prodigioso batterista comincia a rilasciare composizioni in proprio, Jealousy, poi Progress nel ’77 e No Accomodation for Lagos nel ’79, con il supporto degli Africa 70 e dello stesso Fela Kuti. Qualche anno dopo nell’84, lo sciamano delle percussioni prende un’altra decisione che si rivela strategica per l’evoluzione a venire dell’afrobeat. In quell’anno, infatti, si trasferisce in Europa, gironzola un po’ prima di stabilirsi a Parigi, dove è rimasto fino alla fine dei suoi giorni, e nell’85 con gli Afrobeat 2000 pubblica Never Expect Power Always (N.E.P.A.), proiettando i codici di partenza in un futuro anteriore.

SPERIMENTAZIONI
Nel periodo post-Fela (nel frattempo deceduto nel ’97), Tony Allen aveva finito di aguzzare le orecchie su quel mondo della sperimentazione elettronica che ha caratterizzato le sue produzioni successive. Ecco dunque un occhio al dub giamaicano, un altro alle ricette speziate di Jimi Tenor per la serie Inspiration Information della Strut Records, uno ai ritmi cadenzati del rap, che segneranno gli album da Black Voices nel ’99 e Home Cooking (Wrasse Records) nel 2002, in poi, espandendo i confini del genere e aprendo l’afrobeat a una circolazione internazionale. Intanto, nel 1989, spuntava alla ribalta il primogenito di Fela Kuti, Femi. Vuoi per l’insofferenza ai diktat paterni, vuoi perché il rampollo era intollerante al temperamento libertino del padre, Femi Kuti lascia la band (a cui Fela aveva ancora una volta mutato nome in Egypt 80) e forma i suoi Positive Force. Nel ’95 il primo discendente di Fela Anikulapo Kuti, firma un contratto discografico con la Motown (a suo tempo snobbata dal padre) cui fa seguito un lungo tour in Europa e negli Stati Uniti. Dunque, come Tony Allen aveva preparato la grande spallata, anche Femi Kuti si appresta ad intercettare nuove fonti di ispirazione; collabora con eminenti personaggi del mainstream statunitense come Mos Def, Common, Macy Gray, D’Angelo, e nel 2003 riceve una nomination ai Grammy nella categoria world music per Fight to Win, a cui ne seguono altre, senza portare mai a casa la vittoria. Stesso risultato (diversa sorte) per Seun Kuti, il figlio minore di Fela, che sulle orme del padre tiene salda la cloche degli Egypt 80, con Black Times nel 2018, aggiudicandosi la stessa nomination. Somiglianza spaventosa con il padre, Seun persegue la strada dell’afrobeat ultra ortodosso, resistente e barricadero. Contestualmente, i musicisti che avevano fatto parte delle varie band di Fela Kuti, sono espatriati all’estero e hanno contribuito alla diffusione e alla ridefinizione dell’afrobeat nel mondo.
Va notato a proposito, che migrazione e diaspora, sono due concetti che disturbano la meccanica storica e culturale dell’appartenenza: una volta spezzato il legame tra identità e territorio, la nozione di cultura nazionale entra prepotentemente in crisi e anche la questione dell’origine si fa spesso totalmente irrilevante. Viceversa, altri musicisti in patria, coevi e successivi a Fela Kuti hanno continuato a irrorare l’afrobeat, con le loro produzioni casalinghe, nel tessuto sociale nigeriano, rimanendo per lo più anonimi al grande pubblico.

MIGRAZIONI A OVEST
Il tour di Fela Kuti negli Usa, del 1969, è stato uno degli eventi seminali per la proliferazione dell’afrobeat in questa parte di mondo. Fela non ci tornerà fino al 1986 e seppur rimasto per lungo tempo sconosciuto dopo questo primo tour, l’afrobeat comincia a flirtare pian piano con la popular music statunitense. Una delle prime e più citate influenze sul «soundscape» popular americano, è nel lavoro dei Talking Heads, con i labirinti poliritmici di Fear of Music, l’album del ’79, che incorpora l’afrobeat come principale palette di suoni di riferimento, e che diventerà tutta evidenza da lì in avanti. Questo disco vede al banco di regia Brian Eno che con David Byrne ha avuto un’intesa di lungo periodo arrivando a concepire nel 1981 l’album My Life in the Bush of Ghosts, un altro esempio di come l’afrofunk di impronta Fela Kuti stesse prendendo piede nella musica popular occidentale (anche se in questo disco il debito maggiore è con Jon Hassell).
Gran parte di questa ascendenza arriva negli States attraverso l’Europa. Particolarmente significativa è l’associazione tra Fela Kuti e Ginger Baker, il batterista dei Cream, che il musicista nigeriano aveva conosciuto a Londra quando ancora era uno studente al Trinity College; Baker era solito raccontare di come Fela, a quel tempo, bazzicasse con interesse le sue jam session. I due musicisti stringono i rapporti quando il rocker si reca in Africa per immergersi da vicino nel drumming e nelle poliritmie del continente. Viaggia per osservare, studiare, registrare prima in Ghana, poi in Nigeria dove diviene un habitué dell’Afrospot, il primo club di Fela Kuti, sedendo spesso alla batteria di e con Tony Allen. Live! Fela Ransome-Kuti and the Africa ’70 with Ginger Baker (1971) che erutta fiamme e humor à la Fela Kuti prima maniera, e Fela’s London Scene (1972), registrato durante un tour a Londra, sono due album che sintetizzano quelle session. Già che c’era, Ginger Baker diventa proprietario degli Arc Studios a Lagos e produce una manciata di brani di Fela Kuti & Africa ’70, Expensive Shit, Water no Get Enemy, contraccambiando l’invito per il suo Stratavarious (1972), per la cui realizzazione convoca un selezionato parterre di musicisti africani. Questi scambi furono embrionali per la formazione di un network transnazionale di musicisti (da cui più avanti germoglieranno le varie scene locali).
Sull’onda frenetica dell’afro rock agitata in quel periodo nel Regno Unito da personaggi leggendari come gli Osibisa, si accende la fiamma anche per Paul McCartney che con la moglie Linda atterra a Lagos, dove comincia a prendere forma l’album Band on the Run, con un cammeo di Ginger Baker e del percussionista Remi Kabaka degli Africa ’70. Il successo dell’album crea una spinta nel mondo del rock a cercare nuove direzioni sulle rotte del continente africano. Anche il jazz, che fino ad allora era rimasto pressoché estromesso dal grande consumo popolare, trova nuove piste da esplorare da una sponda all’altra dell’Atlantico nero. Diversi jazzisti dell’epoca furono estremamente affascinati traendo nuova linfa dall’afrobeat. Da Miles Davis a Roy Ayers che della collaborazione con Fela Kuti, che fruttò il capo d’opera Music of Many Colors (1980), ricorda ancora: «Io suonavo per Fela e lui suonava per me».
Il disco conserva a distanza di 40 anni tutto il suo calore emotivo. Negli Stati Uniti, nel frattempo, la leggendaria etichetta Editions Makossa pubblica nel 1974, Roforofo Fight e Shakara, che divengono presenze costanti nelle radio e nei club, e contribuiscono a catapultare Fela sulla ribalta internazionale. I vortici oscuri della batteria e l’estrema ripetitività, rendevano questi dischi perfetti per le maratone trance da discoteca.

RAPPER E DJ
Così, i rapper e i dj cominciano a campionare i brani del Black President trasformandoli in prodotti culturali più aderenti ai gusti di un pubblico giovane e cosmopolita. Negli Usa e in Europa l’afrobeat ha perciò assunto una connotazione più sperimentale e «world». Il sassofonista di origine italo-messicane, Martin Perna, ad esempio, è entrato in contatto con la musica di Fela Kuti attraverso un campione di Sorrow, Tears and Blood contenuto in un brano degli hip hopper Usa X-Clan (Grand Verbalizer, What Time Is It?). Questo fu un primo input che ha portato il poliedrico baritonista, a formare una band a New York, diversi anni dopo, nel 1997, i Conjunto Antibalas (letteralmente «a prova di proiettile»), incarnando nel nome quella «politica del groove» di cui sono emissari, che serve loro per attualizzare la prospettiva post-coloniale di Fela in un attacco al dominio globale del potere. Gli Antibalas portano dunque un bilanciamento critico al discorso ideologico nella cultura afrobeat transnazionale, e riflettono una fluidità dell’identità di genere che lo ha reso popolare tra i giovani bianchi della classe media. L’architettura musicale degli Antibalas è un’osmosi tra il linguaggio dell’afrobeat e gli elementi musicali della diaspora nera con l’incedere delle ritmiche percussive cubane e africane. «Ciò che rende interessante l’afrobeat sono i ritmi al rovescio. Non ci sono ritmi armonici per sé, come nel jazz, e ciò significa che i musicisti possono sconfinare. Non è monotono, anzi è una sfida», osserva il compositore e chitarrista Ryan Blotnick. Questo rende i confini del genere alquanto porosi – come dimostra la sua storia e le migrazioni globali ad esso correlate – e determinati dallo spazio sociale e dalle pratiche culturali in campo.

IERI E OGGI
Retrospettivamente è facile dire che Fela Anikulapo Kuti sia una delle figure più influenti del XX secolo. Naturalmente, non è sempre stato così, né in patria né all’estero. Benché l’afrobeat sia strettamente connesso con Lagos (Nigeria) la città da cui ha avuto origine, è stata New York l’epicentro di questo Movimento Afrobeat Globale che si divide in due periodi, il primo a partire, su per giù, dalla fine degli anni Novanta, mentre il secondo rinascimento si è avviato verso gli ultimi scorci degli anni 2000. La tendenza in atto, tuttavia, sembra svuotare l’afrobeat della retorica politica fortemente voluta dal suo creatore, correndo il rischio di essere ridotto in una fuffa commerciale una volta fagocitato dall’industria culturale. «Quando ho cominciato a girare intorno all’afrobeat e a Fela Kuti non c’era ancora questa febbre», commenta Marco Zanotti, direttore e fondatore della Classica Orchestra Afrobeat. «La riscoperta del Movimento Afrobeat è avvenuta con la ristampa, prima negli Stati Uniti e poi via via un po’ in tutto il mondo, del libro di Carlos Moore («Fela, Fela: This Bitch of a Life», ed. Lawrence Hill Books, 2009, ndr), il biografo ufficiale di Fela, che nell’81 scrisse questo libro bellissimo, a suo tempo bruciato e dimenticato, come Fela Kuti, del resto. Questa pubblicazione, che ho tradotto in italiano per Arcana, è la matrice di tutti gli studi che sono stati fatti poi a livello editoriale sull’afrobeat e su Fela Kuti. Poi sull’artista ci sono stati il musical di Broadway, vari film e documentari. Sotto questa spinta politica è partita tutta l’operazione di ristampa del catalogo di Fela da parte della Knitting Factory. C’è stato un movimento non solo culturale ma anche industriale che ha dato avvio a questo risorgimento dell’afrobeat».
Parlando degli esordi della Classica Orchestra, osserva: «Da tempo cercavo una via creativa all’afrobeat per dargli una nuova veste che arricchisse e ampliasse il messaggio, e che non fosse solo una copia, perché lo stesso Fela Kuti odiava quelle che lui chiamava le copyright band, le cover band. Quindi, prima che nascessero copie esagerate di Fela Kuti nel mondo, mi ritrovai a parlare una sera con un’amica clavicembalista che si chiama Valeria Montanari,che lavora in ambito barocco, e da questo clash tra batteria (Zanotti è batterista e polistrumentista, ndr) e clavicembalo, è nata l’idea di un ensemble da camera, che fosse un po’ barocco, per rileggere Fela Kuti». Quello che potrebbe sembrare un classico tradimento all’italiana è dunque molto più aderente di tante operazioni ibride o copia-e-incolla che si vedono in giro, al Fela Kuti pensiero che considerava l’afrobeat come una musica classica moderna, non senza ragioni.
Fela aveva infatti una formazione classica, da Conservatorio, e coltivava un’adorazione particolare per compositori come Handel, Bach, oltre che per jazzisti come Miles Davis. Questo spiega la struttura polifonica dell’afrobeat. Continua Zanotti: «Fela poi abbandona il jazz perché capisce che non parlava alla sua gente, era troppo sofisticato così come l’aveva studiato al Trinity College, dove si era diplomato con una tesi su Bach. Questo è stato un input importante per quello che ho fatto io, perché sono partito da un ragionamento prettamente musicale pensando a come Fela aveva costruito l’afrobeat».
Fela Kuti aveva avuto, infatti, un’intuizione folgorante «rispetto alla musica africana che c’era già – evidenzia Zanotti -, l’intuizione è stata quella di mettere insieme i grandi tamburi parlanti, le frasi di questi tamburi della tradizione musicale Yoruba, con le chitarre, i bassi, e gli strumenti che lui utilizzava, aggiungendo i fiati, dal retaggio jazzistico e della musica cubana. Fela crea così questa nuova musica con un sistema polifonico di sovrapposizione di linee ripetitive che ha molto a che vedere con la polifonia barocca, dove c’è un basso continuo e dove ci sono delle voci che si intersecano in maniera polifonica. Un po’ questa cosa mi ha spinto a creare l’orchestra».
Da questo punto di vista il primo disco della Classica Orchestra, Shrine on You. Fela Goes Classical, è tutto fuorché un’eresia: «Questo primo disco è afrobeat puro, à la Fela. Infatti in quel disco lì è venuto Seun a cantare, il chitarrista degli Africa ’70 a suonare, e ci fece andare al festival di Glastonbury. La Classica Orchestra Afrobeat è stata la prima band italiana a partecipare a Glastonbury in 40 anni di festival. Nel secondo e terzo disco ho preso la parola afrobeat un po’ più alla larga, come si intende adesso. Si parla addirittura di afrobeats… è l’afrobeat che si arricchisce delle chitarre elettriche, con gli elementi europei e con varie influenze diventando una musica globalizzata».