«Niente riconoscimento di Israele senza reciprocità». È stato perentorio ieri Nabil Shaath. Ex ministro degli esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Shaath è stato uno dei personaggi di spicco degli “anni di Oslo”. Fino all’inizio della seconda Intifada, nel 2000, come molti suoi colleghi di governo vendeva ai palestinesi un futuro di prosperità, libertà e indipendenza che non è stato mai raggiunto, come i critici degli accordi firmati da Israele e Olp nel 1993 avevano ampiamente previsto. Oggi Shaath è fautore della linea della fermezza nei confronti di Israele e degli Usa. «Il Consiglio centrale palestinese ha deciso di congelare il riconoscimento di Israele da parte dello Stato (palestinese) fino a quando Israele riconoscerà la Palestina come Stato», ha annunciato Shaath riferendo che con 74 favorevoli, due contrari e una dozzina di astenuti il parlamento ridotto dell’Olp ha dato «seguito concreto» al discorso pronunciato domenica da Abu Mazen. Il presidente palestinese, usando un insolito tono battagliero, ha proclamato la fine del processo nato a Oslo nel 1993, a causa delle politiche di Israele, e ribadito il secco rifiuto del piano di pace americano, noto come “L’Accordo del secolo”, dopo lo «schiaffo» dato ai palestinesi da Donald Trump con il suo riconoscimento unilaterale di Gerusalemme come capitale di Israele.

Sul «seguito concreto» la cautela è d’obbligo. Che la rabbia di Abu Mazen e del suo entourage sia genuina non ci sono dubbi. Tuttavia è bene ricordare che il Consiglio Centrale dell’Olp, ad esempio, non solo lunedì scorso ma già nel 2015 aveva approvato l’interruzione immediata del coordinamento di sicurezza tra servizi palestinesi e israeliani. Ma tale decisione non è mai stata attuata ed è rimasta congelata per decisione proprio di Abu Mazen, chiamato ora a ratificare e a rendere esecutive le richieste fatte dal Consiglio Centrale dell’Olp. Che ciò possa avvenire è difficile crederlo. Abu Mazen ha fatto la voce grossa ma non ha ordinato lo stop alla cooperazione di sicurezza, lo confermava ieri all’Ong “Israel Project” il colonnello Alon Eviatar del Cogat, l’ufficio militare che coordina le attività del governo israeliano nei Territori occupati. Il presidente palestinese inoltre si è guardato bene dal velocizzare la riconciliazione con gli islamisti di Hamas che controllano Gaza. «Abu Mazen intende tenere aperta la porta sull’Occidente e sa che riconciliandosi con Hamas in questo momento delicato in cui cerca appoggi in Europa e altri Paesi, quella porta si chiuderebbe», spiega al manifesto l’analista di Gaza Mukreim Abu Saada. Anche i contatti con gli Usa non sono stati interrotti totalmente.

Sullo sfondo di questa battaglia diplomatica fatta di proclami, dichiarazioni e minacce verbali, si consuma il dramma di milioni di profughi della Nakba palestinese (1948) e dei loro discendenti in attesa di conoscere se gli Stati Uniti, come minacciano da giorni, ridurranno drasticamente il loro contributo (355 milioni di dollari nel 2017) all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste 5,3 milioni di rifugiati palestinesi e gestisce 711 scuole e 143 cliniche. «La nostra agenzia resta impegnata a svolgere i suoi servizi vitali per i profughi palestinesi. Nonostante le intenzioni manifestate dagli Stati Uniti, continuerà a operare in Siria, Libano, Giordania, Cisgiordania e Striscia di Gaza e a Gerusalemme Est», assicura un portavoce dell’Unrwa, Sami Mashasha. L’allarme comunque è concreto. Ieri sera si attendevano le decisioni di Washington che, come ha avvertito Trump, è pronta a congelare la metà del primo contributo annuale Usa all’Unrwa di 125 milioni di dollari. In questi ultimi anni l’Unrwa ha già dovuto affrontare una riduzione delle donazioni internazionali, causata della diminuita attenzione verso i diritti dei profughi palestinesi. Israele è favore dei tagli minacciati dalla Casa Bianca. Secondo il premier Netanyahu l’Unrwa dovrebbe sparire poiché, afferma, con la sua attività assistenziale impedirebbe l’assorbimento dei profughi palestinesi nei Paesi arabi in cui si trovano e alimenterebbe il desiderio dei rifugiati al “ritorno” in Palestina.