«Penso che noi sulla minaccia iraniana abbiamo esagerato già da molto tempo». Due giorni fa l’ex premier israeliano Ehud Olmert, poco prima di pronunciare queste parole sulla delicatissima questione del programma nucleare iraniano, si era già preso belle bordate di fischi e di «boo». Aveva osato sostenere, davanti ai circa mille partecipanti alla conferenza annuale del Jerusalem Post a New York,  che Israele deve dare via libera alla realizzazione della «soluzione dei due Stati», ossia deve lasciare ai palestinesi il diritto di vivere liberi in un loro Stato indipendente. «Se (gli altri Paesi,ndr) ci isolano non è perchè sono antisemiti, piuttosto non possono più tollerare l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi», aveva spiegato. E giù con fischi, urla e molto altro. Proteste cresciute quando ha toccato l’Iran. «Se il presidente Obama afferma in pubblico ed in maniera inequivocabile che gli Stati Uniti non consentiranno all’Iran di dotarsi di armi atomiche, io penso – ha detto Olmert – che dobbiamo prenderlo sul serio».

La platea non ha accettato quella critica netta alla linea di scontro con Tehran portata avanti da anni dal premier israeliano Netanyahu, stanco della diplomazia e deciso a chiudere la questione con un attacco aereo alle centrali atomiche iraniane a costo di innescare un conflitto devastante in Medio Oriente. Altre polemiche nei confronti di Netanyahu sono giunte dall’ex capo del Mossad, Meir Dagan, che a New York  ha confermato di aver impedito nel 2010 (assieme ad altri responsabili della sicurezza) un possibile attacco di Israele all’Iran. Da Gerusalemme è partita ieri la secca reazione di Netanyahu. «L’Iran non ha ancora varcato la ‘Linea Rossa’ verso la bomba (atomica, ndr)…Tuttavia si avvicina a essa in maniera sistematica. Occorre impedire che la oltrepassi», ha avvertito il primo ministro lasciando intendere che Israele è pronto a far decollare i suoi cacciabombardieri. Tutto o quasi dipenderà dall’atteggiamento che avrà nei prossimi mesi l’Amministrazione Obama. Ieri peraltro è stato «battezzato» a Kiel l’“INS Rahav”, il quinto sottomarino di classe “Dolphin”, capace di portare missili atomici, che la Germania trasferirà a fine anno alla Marina israeliana.

Netanyahu, sostenuto dalla maggioranza degli ebrei americani, dall’opinione pubblica israeliana e dalle lobby amiche che agiscono in vari Paesi occidentali, sembra non tollerare le critiche. Il suo ufficio ha diffuso un comunicato nel quale si definiscono le dichiarazioni fatte da Olmert e Dagan negli Usa «dannose per gli interessi di Israele». Come se i due «avversari» fossero rappresentanti della sinistra radicale e non due esponenti della destra israeliana. Olmert prima di spostarsi più a centro aderendo al partito Kadima, era stato un falco del Likud e in qualità di sindaco di Gerusalemme aveva lavorato per annettere a Israele realizzando progetti concreti sul terreno la zona araba della città occupata nel 1967.  Dagan, per anni vicino al falco Ariel Sharon, ha ordinato alcune delle operazioni più letali e vincenti dal servizio segreto israeliano.

Ma il clima è questo, il dissenso interno verso la politica del premier nei confronti dell’Iran e dei palestinesi è tollerato solo in misura minima. E il ministro Naftali Bennett, principale sostenitore dei «settler» in Cisgiordania, sta facendo circolare un progetto di legge che prevede la convocazione di un referendum su qualsiasi accordo di pace che potrebbe essere raggiunto con i palestinesi. Ma l’occupante non può decidere da solo con un voto se ritirarsi o meno da un territorio che ha preso a un altro popolo, deve arretrare così come, nel caso di Israele, affermano le risoluzioni delle Nazioni Unite.

In questo clima appare velleitario il progetto del Segretario di stato Usa John Kerry di organizzare a giugno un summit con israeliani e palestinesi, al quale dovrebbero partecipare anche Turchia ed Egitto, allo scopo di rilanciare il negoziato. Non c’è nulla che possa far credere che Israele rinuncerà alla colonizzazione così come chiedono i palestinesi per tornare al tavolo delle trattative. Kerry a giugno punterà solo a strappare al presidente palestinese Abu Mazen la rinuncia allo stop alle colonie e il ritorno ai colloqui senza precondizioni, come vuole Netanyahu.  Tutto ciò mentre si vive un momento politico delicato tra i palestinesi con Abu Mazen che ha la possibilità, dopo le dimissioni del premier Salam Fayyad, di formare un governo di unità nazionale e di mettere fine alla frattura con Hamas che dura dal 2007. Le due parti però sono ancora lontane da un’intesa sulle elezioni politiche e presidenziali e la riorganizzazione dell’Olp.