Nell’incipit del suo discorso di accettazione del Nobel, che ricevette nel 2019, Olga Tokarczuk ha raccontato come le origini della sua passione per la scrittura si trovino negli interrogativi destati in lei bambina da una fotografia che ritraeva sua madre poco prima del parto. Osservando da piccola il profilo in bianco e nero di quella donna un po’ malinconica, immaginava che stesse cercando di mettersi in contatto con lei non ancora nata, girando le manopole di un ingombrante apparecchio radiofonico che occupava il resto dell’inquadratura: «Come un radar sensibile, perlustrava le infinite regioni del cosmo, nel tentativo di scoprire quando e da dove sarei arrivata». Secondo Tokarczuk, l’atmosfera enigmatica che pervadeva quella foto le avrebbe instillato fin dall’infanzia la convinzione che oltre l’involucro materiale del mondo dovesse esserci qualcosa di più inafferrabile, che andava per l’appunto raccontato.

Ai margini senza varcarli
E, in effetti, gli stessi accademici svedesi nella loro motivazione sottolineavano come l’immaginario narrativo dell’autrice polacca avesse privilegiato da sempre l’«attraversamento dei confini» – quindi l’esplorazione di realtà diverse – come vera e propria strategie per guardare all’esistente. Tuttavia, se si considera la sua opera in una prospettiva diacronica, ci si rende conto come per lungo tempo Tokarczuk abbia coltivato la posizione di chi si posiziona «ai margini» senza necessariamente varcarli, indagando piuttosto la dimensione transitoria della soglia. Il confine come linea che divide in due l’essere, innescando un inesauribile gioco di sdoppiamenti, antitesi e rispecchiamenti è al centro di Casa di giorno, casa di notte, quarto romanzo di Tokarczuk, pubblicato nel 1998, tradotto da Raffaella Belletti per Fahrenheit 451 nel 2007 e ora riproposto da Bompiani (pp. 352, € 19,00).

La frontiera qui evocata, nient’affatto metaforica, è quella che corre tra Polonia e Repubblica Ceca a pochi chilometri da Nowa Ruda, amena cittadina di montagna, e dal villaggio in cui la scrittrice si era trasferita proprio alla fine degli anni Novanta. Eppure, interpretare in chiave autobiografica questo romanzo sui generis, imbastito a partire dalla giustapposizione di racconti autonomi, pagine di diario, materiali scaricati dalla rete e ricette a base di funghi locali non sempre innocui, sarebbe sbagliato.

In Casa di giorno, casa di notte l’autrice mette a punto quella forma ibrida tra fiction e non fiction che caratterizzerà le sue prove più riuscite (anzitutto I vagabondi, pubblicato dieci anni dopo) e che incarna compiutamente il suo modo di intendere la letteratura. In un’epoca come quella attuale, contrassegnata da una proliferazione di scritture dell’io, Tokarczuk sembra caldeggiare l’avvento di uno sguardo più onnicomprensivo che individuale, proiettato al di fuori della soggettività e in grado di restituire al lettore il senso del legame misterioso che riunisce tutte le cose. Un ideale esemplificato, per Olga Tokarczuk, dalla voce paradossale del narratore onnisciente che all’inizio del Genesi descrive il processo della Creazione, situandosene automaticamente al di fuori.

D’altro canto, la spinta a raccontare consiste secondo Tokarczuk, nell’urgenza di «dare un senso ai milioni di stimoli che ci circondano», di «ordinare nel tempo un’infinita quantità di informazioni, disponendole in termini di causa ed effetto». Questo bisogno istintivo spinge l’autrice a integrare nei suoi testi fonti eterogenee, trame improbabili, punti di vista multipli, personaggi storici bizzarri, nella convinzione che tutto ciò non potrà che arricchire quell’orientamento «panoramico» da lei auspicato.

E infatti, le storie assemblate in Casa di giorno, casa di notte sembrano ricordare a tratti i quadri sorprendenti e sempre mutevoli di un Kaiserpanorama, uno di quegli ingombranti visori collettivi di immagini tanto in voga in Germania alla fine dell’Ottocento che, come scriveva Walter Benjamin, avevano abituato le folle borghesi a «viaggiare in un locale semideserto» per terre lontane. Analogamente, Tokarczuk sottopone allo sguardo spaesato del lettore visioni improvvise, lacerti di illuminazioni, apologhi talora spiazzanti che subentrano l’uno all’altro con l’inesorabilità di un congegno meccanico.

Tema unificante è il dualismo tra materia e spirito che si estende a ogni cosa, «come se il mondo fosse un sipario che nasconde un’altra verità, una verità inafferrabile, perché non suffragata da cose, da fatti, da nulla di duraturo». Gli scrittori sono chiamati a dar voce a questa ineffabilità, e l’alter ego di Tokarczuk assolve questo compito confrontandosi con una sorta di «doppio», l’enigmatica Marta, una vicina di casa che diventa sua taciturna confidente, nonché il nume tutelare del libro che va elaborando. È proprio Marta col suo consueto tono apodittico a esortare l’io narrante a «non prendere troppo sul serio ciò che si vede», poiché gli occhi colgono soltanto «una morta porzione di un insieme più grande, vivo».

Dalla pianura boema
La postazione sopraelevata di Nowa Ruda, affacciata sull’immensa pianura boema «che invita a viaggiare», diventa così l’osservatorio ideale per pervenire a una nuova visione del reale, innervata dalla consapevolezza che «il mondo è mobile e vibrante». A poco a poco la protagonista, che si è appena trasferita in quei luoghi remoti dalla città, sprofonda in una specie di trasognata osmosi con la natura che la circonda, indagando processi di trasformazione spesso nascosti allo sguardo, come la morte o la crescita. Anche le storie che va scoprendo sul conto degli abitanti passati e presenti di Nowa Ruda sembrano confermare l’intuizione secondo cui ogni esistenza, anche la più incolore, nasconde in realtà un segreto.

Tutti avrebbero desiderato essere qualcos’altro – a partire dal monachello Paschalis che vorrebbe trasformarsi donna e si ritrova a scrivere la vita della leggendaria santa barbuta Kummernis, crocifissa da suo padre a causa del proprio rifiuto di accettare uno sposo diverso da Cristo.

In ciascuno dei personaggi abitano pulsioni incontrollabili, esseri ignoti – l’alcolizzato Marek-Marek, ad esempio, è convinto di avere un uccellaccio nero imprigionato dentro il petto, mentre il professore di latino Ergo Sum si tramuta in un licantropo per scontare il suo peccato originale: l’essersi nutrito di carne umana in un gulag sovietico durante la guerra. In mezzo a questa collezione di aneddoti inverosimili, disperati, o grotteschi, Tokarczuk, memore del suo passato di psicologa a indirizzo junghiano, si dedica a quell’immane procedimento di autotrasfigurazione collettiva che è il sogno.

L’alternanza tra sonno e veglia che coinvolge a turno l’umanità intera assume qui una tonalità solenne, quasi mistica, proprio in quanto esperienza di dissociazione e sdoppiamento che è alla base del nostro precario equilibrio: «Dissi a Marta che ognuno di noi ha due case – una concreta, collocata nel tempo e nello spazio; l’altra infinita, senza indirizzo. E che viviamo contemporaneamente in entrambe».