È un plotone agguerrito quello delle cantanti russe, alcune nate anche dopo la caduta del muro, che calcano le scene operistiche internazionali con successo. Certo, al vertice assoluto arrivano in poche, ma ormai non si vive più di sola Netrebko. Olga Peretyatko, nata nel 1980, in quella che allora era Leningrado è un giovane soprano che in poche stagioni, grazie a notevoli qualità vocali, grande avvenenza e mettendo a frutto anni di duro lavoro iniziato fra le voci bianche del Kirov, ha costruito una brillante carriera internazionale, sancita dai debutti al Met di New York (con i Puritani di Bellini, a fine 2014), dal recente Premio Abbiati, e confermata questi giorni dall’Otello di Rossini, sul palcoscenico della Scala di Milano (stasera e fino al 24 luglio, nda ).

 
All’Italia Olga Peretyatko deve molto; tutto è iniziato all’Accademia Rossiniana di Pesaro e al ROF, e Rossini è diventato subito il suo grande asso nella manica. Ma davvero una cantante rossiniana sa misurarsi con le parti più difficili che ci siano in teatro, almeno in campo belcantistico? Dice Olga: «Non so: certo l’errore più grave è quello di cantare queste opere con la voce di qualcun altro, voler essere la Grisi o la Pasta o chissà chi. Anche se Rossini scriveva per voci di cantanti specifici, elemento di difficoltà in più, si deve trovare la propria strada rispetto a ruoli che hanno una escursione vocale estrema, sempre oltre le due ottave, che devono essere affrontati conoscendo lo stile, con una voce perfettamente sana, in forma. Vietati i suoni sporchi, tutto è tremendamente scoperto. Forse è vero, quando canti questa musica devi essere al duecento per cento, e dopo puoi affrontare qualsiasi altra cosa».
Quindi la forma fisica al primo posto?
La vita del cantante non è facile come qualcuno potrebbe pensare, ci vogliono tanti sacrifici anche nel quotidiano, ci sono tanti elementi esterni che ci possono influenzare. A parte le questioni di salute, possiamo vivere passaggi umani e professionali dolorosi, un lutto – e mi è successo – dei momenti di tristezza, sono tutti elementi che al pubblico non arrivano e non interessano. Se sei in scena devi cantare bene. E a quel punto entra in gioco la tecnica, la professionalità, solo quello ci salva. Anche quando in teatro qualcuno non gradisce e grida ‘buu’, che puoi fare? Canti e vai avanti! Ci sono cose più importanti a cui pensare.
La sua carriera è in continua ascesa, anche grazie a una scelta oculata delle parti da interpretare. Le capita di ricevere proposte folli o impossibili?
Naturalmente ne arrivano. Ma dipende da noi, non crede? Credo che bisogna mantenersi sempre su ruoli un po’ più leggeri delle proprie reali possibilità, perché poi in scena ci sono gli imprevisti, la regia, la tensione. Molti ripetono che sono i direttori o gli agenti a convincere gli artisti, ma i cantanti devono mostrare una propria personalità, scegliere da soli se dire sì o no.
A proposito di direttori, lei è sposata al direttore Michele Mariotti: quanto conta la musica nella vostra vita privata. La lasciate fuori dalla porta?
Michele mi stima, mi aiuta e mi consiglia, la musica non può restare mai fuori dalla porta nel nostro lavoro. Magari alle due di notte mi sveglio con la soluzione per un certo fraseggio, e corro a scriverla. Certo a lui non devo spiegare nulla, mi capisce al volo. Ma siamo una coppia normale, ci piace cucinare per gli amici, leggere, uscire, andare al mare.
I prossimi debutti?
Le quattro parti dei Racconti di Hoffmann di Offenbach. Una sfida. Poi, fra qualche anno, forse, Semiramide: dopo che ho già cantato dieci ruoli rossiniani posso iniziare a pensarci. E le regine donizettiane, ma per ora a non posso dire altro.