Mollato dall’ex fedele alleata Angela Merkel, assediato da chi ha dichiarato guerra al dumping fiscale, ma anche messo spalle al muro sul fronte interno, dove due anni prima delle elezioni politiche a crescere sono anzitutto i sovranisti del cartello «Non un cent all’Italia». A Bruxelles il premier olandese Mark Rutte combatte la battaglia per la sopravvivenza personale, prima ancora della partita per assicurare ai Paesi Bassi la leadership della Nuova Lega Anseatica e dei “frugali”.

Sul suo tavolo – assai più leggibile del piano sul «Recovery Fund all’unanimità» – spicca il sondaggio di inizio luglio dell’istituto Peil che fotografa il suo Partito liberal-conservatore (Vdd) precipitato a quota 33% dal 45% di gennaio, mentre i populisti del Partito per la Libertà (Pvv) sono passati dal 15% al 18%. Per questo motivo Rutte, al di là della propaganda, è concentrato unicamente sul portare a L’Aia qualunque risultato rivendibile come difesa dell’interesse olandese. Ed è esattamente da qui che nasce l’inedita, clamorosa, impraticabile richiesta di «creatività» nell’interpretazione dei trattati Ue al presidente Conte.

Ben più della “cicala” Italia, l’incubo di Rutte si chiama Geert Wilders, leader del Pvv, principale avversario alle passate elezioni quanto nell’imminente campagna per le prossime. A marzo di tre anni fa, il premier era riuscito a scongiurare il sorpasso di Wilders (favorito in tutte le rilevazioni) conquistando il 21,3% dei voti contro il 13,1 del candidato populista. All’epoca il primo ministro aveva celebrato in pompa magna la «vittoria dell’argine europeista» capace di contenere l’esondazione del fronte sovranista, anche se a L’Aia c’era poco da festeggiare. Alla conta finale nelle urne, i liberal-conservatori avevano lasciato per strada il 5,3% del consenso, ovvero 8 dei 41 seggi alla Tweede Kamer (la Camera bassa), mentre il Pvv era cresciuto del 3% fino a occupare 20 scranni: uno in più dei popolari dell’Appello cristiano-democratico, il principale alleato del Vdd. Più che un campanello d’allarme, una sveglia per Rutte, non più dominus della politica olandese e sempre meno capace di suonare lo spartito del potere, che nei Paesi Bassi è interpretato dai 28 partiti ammessi alle scorse elezioni.

Single, membro attivo della Chiesa protestante, nel suo curriculum spicca una formazione ultra-manageriale: dall’impiego alla Calvè fino alla miriade di incarichi nella galassia di società del Gruppo Unilever. Formazione business oriented, più che utile a spiegare la fissazione per i conti dell’Ue così come per i miliardi di dollari che circolano nell’economia internazionale. Una forma mentis declinata perfino nel mondo della scuola, con l’obiettivo di «connettere il sistema dell’istruzione nazionale con il mercato globale». Da ex ministro dell’Educazione del governo di Jan Peter Balkenende ha provveduto a trasformare gli studenti olandesi in «consumatori dell’offerta formativa».

Liberista duro e puro: nemico giurato del deficit pubblico quanto accanito difensore del mitologico libero mercato, che a L’Aia si traduce soprattutto nel dumping fiscale necessario a calamitare gli investimenti dalle multinazionali di tutta Europa. Da questo punto di vista l’economia dei Pigs (a partire dall’Italia) non preoccupa, anzi, fa dormire sonni tranquilli al governo dei Paesi che sono Bassi anche sotto il profilo della tassazione.

Tutto regolare e perfettamente accettato, ma solo fino a ieri. La nuova offensiva italiana contro «i paradisi fiscali nell’Ue» rischia di minare il segreto del successo dello Stato capofila dei “frugali”. E sebbene la fiscalità unica europea rimanga un miraggio visibile solo con il binocolo, la minaccia di rompere l’incantesimo olandese a Rutte fa paura. Soprattutto perché l’attacco diplomatico di Roma è tutt’altro che scoordinato nell’Ue ed è già costato all’Olanda l’ammorbidimento della posizione iniziale iper-oltranzista. Senza contare che la Germania – ora in versione di mediatrice – non è più la sparring-partner dell’Aia, e perfino Charles Michel, presidente belga del Consiglio europeo e prodigo di offerte pro-Olanda, ha quasi esaurito il suo margine di trattativa. Di fatto, l’unica sponda di Rutte nell’Eurozona è l’asse con Copenhagen, Vienna, Helsinki.

«Non proprio un gruppone, anche se non siamo rimasti soli» per dirla con le parole del premier olandese, costretto ad ammettere ai cronisti di casa che «l’atmosfera è tesa» come a rispondere «non so» a chi ieri gli chiedeva se l’accordo sarebbe stato raggiunto entro il fine settimana. Tutto mentre ormai, anche in Olanda, prende sempre più piede il calzante soprannome di Mister No.