A due settimane dalle elezioni federali in Germania, dando credito ai sondaggi (sui quali grava comunque l’imprevedibilità di una incerta fase di transizione), emergono una conferma e due sorprese.

La conferma è il declino, in atto da tempo, della forza di maggioranza orfana della sua popolare e longeva leader Angela Merkel. Da quel trionfale 41 per cento conseguito nel 2013, la Cdu-Csu e il suo candidato Armin Laschet vengono oggi quotati di un misero 22 per cento, quattro punti sotto i socialdemocratici in sorprendente ascesa. Se Merkel era comunque riuscita a conservare il consenso degli elettori promettendo stabilità e un corso politico senza scosse né sorprese, è anche vero che di fronte agli eventi traumatici di un mondo ben più irrequieto della tranquilla vita borghese così amata dai tedeschi, sapeva dare risposte diverse dalla pura e semplice continuità del modello Germania e delle sue abitudini. Le parole d’ordine continuiste, moderate e conservatrici sulle quali punta senza spingersi oltre il suo scialbo successore non sembrano più esercitare il voluto effetto rassicurante. Rischiano di tradursi in una politica dello struzzo, in una narrazione ingannevole, nella promessa di una stabilità sempre sull’orlo di essere travolta dall’instabilità del mondo. I sani principi di “economia domestica” con i quali Wolfgang Schäuble deliziava i risparmiatori tedeschi suonano ormai come una ridicola favoletta.

La prima sorpresa è il declino dei Grünen che in primavera avevano addirittura conquistato il primo posto tra i partiti tedeschi. Sembrava l’anno perfetto per conferire massima priorità alle tematiche verdi. A metà luglio una devastante inondazione, riconducibile al cambiamento climatico, aveva colpito il Nordreno-Westfalia e la Renania-Palatinato con spaventosi costi umani ed economici. Pochi giorni dopo un’esplosione nel gigantesco polo chimico di Leverkusen liberava un’estesa e micidiale nube tossica. Ma proprio in quel mese, sempre stando ai sondaggi, i Verdi iniziavano a declinare fino al 16 per cento e il terzo posto che gli viene oggi accreditato. L’apparente paradosso potrebbe trovare spiegazione nel fatto che il disastro ambientale ha raggiunto dimensioni e intensità tali da interpellare ormai tutte o quasi le forze politiche, togliendo al partito ecologista la rappresentazione esclusiva di questa tematica. Resta nondimeno il fatto che democristiani e socialdemocratici sono i più fortemente compromessi con le lobby industriali e con quella, più pestilenziale di tutte, del carbone. Anche se i Grünen hanno cessato da tempo di rappresentare una forza di alternativa radicale, bisogna pur riconoscere loro, tra tanti compromessi, una maggiore coerenza nella politica ambientale.

La seconda sorpresa è la straordinaria risalita della Spd, dopo innumerevoli rovesci e un lungo costante declino. Il tentativo di Martin Schulz nel 2013 di spostare a sinistra l’asse del partito e porre fine alla Grosse Koalition, dopo una partenza che fece gridare al miracolo, si risolse in un disastro del 20 per cento.

Dalla Grande coalizione (vicecancelliere e ministro delle finanze) proviene invece Olaf Scholz, autore del clamoroso sorpasso sulla Cdu-Csu negli ultimi sondaggi. Personaggio di apparato, non molto dissimile da Schäuble nelle sue concezioni economiche, strenuo difensore della draconiana riforma del mercato del lavoro (Harz IV) varata nel 2003 dal collega di partito e cancelliere Schröder, uomo d’ordine a tutti gli effetti, Scholz fa a pugni con tutti gli aspetti più progressivi del programma socialdemocratico e incarna egregiamente quella corsa verso il centro che nel corso degli anni aveva spinto molti suoi elettori a considerare superflua una Spd logorata dal potere condiviso ma in posizione subalterna. Probabilmente sono proprio queste caratteristiche a far apparire Olaf Scholz come l’erede più prossimo della politica di Angela Merkel. Come negli Usa il vice succede al premier, anche se proviene, nel caso tedesco, da un altro partito.

A guardare il programma socialdemocratico, dalla politica fiscale all’immigrazione, dal salario minimo alla patrimoniale e al tetto degli affitti, le maggiori somiglianze si riscontrano con quello della Linke, il partito della sinistra in lieve ma costante declino. Nessuna delle coalizioni di governo che non lo comprendano permetterebbe di por mano a misure di questo tenore. La Cdu-Csu e ancor più i falchi liberali le vedono come il fumo negli occhi. E tuttavia la formula rosso-rosso-verde resta tabù. Escluderla più o meno esplicitamente sembra condizione indispensabile per rastrellare consensi e conquistare il governo.

L’argomento principe di democristiani e liberali contro gli avversari è che la Spd e i Grünen andrebbero a governare con i “comunisti”. Iperbole non dissimile da quando di fronte alla vittoria di Willy Brandt nel ‘69, il sanguigno leader della Csu Franz Jseph Strauss commentò che i Bolscevichi si erano ormai insediati a Bonn.

Quanto alla Linke poco potrebbe influire con il suo scarno 6 per cento e molto rischierebbe di venire logorata da una debole posizione di governo sotto la guida di un cancelliere della stregua di Olaf Scholz. Ma il programma della Spd sembra stilato più per accontentare la sinistra del partito che non per rappresentare un concreto imperativo di governo. Dallo scoppio della pandemia in poi anche la Germania ha cominciato a mostrare le sue fragilità. Merkel ha risposto non facendo ripiegare il paese su sé stesso. Ma nell’incertezza della transizione è sempre possibile che questo accada. E per l’Europa non sarebbe una buona notizia.