Il logo di Netflix è accolto dalla prevedibile bordata di fischi e applausi della Lumiere. Poi il film parte. Col formato sbagliato. Ci vuole un po’ prima che si corra ai ripari, mentre i festivalieri immortalano con i cellulari quello che accade. Poi, dopo, un comunicato: «semplice» errore umano. Nessuno complotto o sabotaggio. Per fortuna c’è il film. E il film è la riprova che Bong è un cineasta di primissima grandezza. Dopo il magnifico Snopwpiercer, finito nelle grinfie di Harvey «mani-di-forbice» Weinstein, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma, il regista sudcoreano si conferma visionario poeta distopico inserendosi con agio nel solco di uno Swift, di un Orwell o di narratori come Harry Harrison.

Ed è proprio  a quest’ultimo che sembra rimandare per certi Okja. In Largo! Largo!, libro adattato per il grande schermo da Richard Fleischer (Anno 2022: i sopravvissuti), si ipotizzava il cannibalismo su scala industriale come risorsa ultima per sfamare il genere umano (punto terminale del lavoro), mentre in Okja si immagina un genocidio di animali geneticamente modificati per tenere in piedi il fantasma della produzione e del lavoro. Bong, da sempre cineasta politico, mette in scena con estrema precisione le strategie della comunicazione come cosmesi terminale del capitale. Dietro i maiali geneticamente modificati si cela l’idea di un capitale anch’esso giunto al suo ultimo grado di mutazione.

Il film, non a caso, si apre in una fabbrica riconvertita dove si dà a intendere si producesse napalm. Bong si diverte a scorrazzare fra i generi. Si manifesta ancora una volta la sua evidente passionaccia per Miyazaki (già emersa in The Host, ma in una torsione nera) con l’ingombrante Okja una sorta di incrocio fra il muso da cane del Falkor (in realtà Fùcur…) de La storia infinita e la morbidezza di Totoro. Come tutti i veri moralisti, Bong si rifiuta di offrire soluzioni facili. Difficile non spargere sangue se si tratta di sfamare il pianeta.

Ovviamente Bong suggerisce che ci possa essere un modo per restare vivi senza perdere la propria umanità e che magari cambiare qualche abitudine non dovrebbe essere la fine del mondo. Dietro la sua apparenza di disinvolto apologo animalista, Okja racconta in realtà di un mondo che finisce per coincidere brutalmente con un’idea di produzione che accetta la possibilità che il lavoro stesso sia giunto al capolinea. «Crede che questa storia ci danneggerà? Che compreranno?» chiede a Giancarlo Esposito (dai polli ai maiali…) a una doppia e perfida Tilda Swinton. Replica: «Se i prezzi saranno bassi, compreranno». Accolto da applausi a fine proiezione, Okja (su Netflix lo vedremo il 28 giugno) sembra fare il paio con The Host.

In fondo, Bong mette in scena i fantasmi e gli scarti di ciò che resta del mondo occidentale. Lo spettro del Lager è più che mai presente come orizzonte della politica economica di un mondo in procinto di auto annichilirsi (agghiaccianti le sequenze del mattatoio). Bong, per sua e nostra fortuna, procede però con mano leggera: si diverte a giocare con i canoni del kaiju eiga (il film di mostri giapponesi) senza provocare morti o distruzione. Il cast internazionale, da Paul Dano passando per Stephyen Gyllenhaal e Steven Yeun (The Walking Dead) si presta al gioco con gusto, insinuando anche limiti dell’azione politica insurrezionale. Insomma, non si salva nessuno o quasi, se non, forse, una piccola possibilità, l’ultima?, di invertire la rotta.