Quattromila giorni di protesta. Tanti ne sono passati da quando un piccolo gruppo di attivisti iniziò nel 2004 a piantare tende sulla spiaggia di Henoko a un passo da una base militare americana – Camp Schwab – nella parte nordorientale dell’isola di Okinawa. Il 19 aprile prossimo il movimento contro l’espansione di Camp Schwab compirà undici anni.

Da quando, ad agosto dell’anno scorso il governo di Tokyo ha dato il via libera ai sondaggi sul fondale a largo di Camp Schwab per la costruzione di un allargamento della struttura, la protesta si è allargata e ha coinvolto nuovi attivisti che da mesi si riuniscono davanti ai cancelli della base militare.

Anche in questi giorni tra le 70 e le 100 persone – scriveva il Ryukyu Shimpo, uno dei principali quotidiani locali di Okinawa – si uniscono ogni giorno al sit-in sulla spiagga di Henoko. Una nuova speranza per il futuro della protesta è arrivato dalle elezioni provinciali a novembre dell’anno scorso. Sostenuto da una piattaforma indipendente, Takeshi Onaga ha sconfitto il suo predecessore Hirokazu Nakaima, sostenuto dal Partito liberaldemocratico del premier Shinzo Abe, e ha dichiarato che si opporrà «con tutti i mezzi a sua disposizione» alla costruzione di nuove basi sull’isola. Una promessa che per certi versi ricorda quella dell’ex primo ministro Yukio Hatoyama che nel 2009 aveva messo nero su bianco parole simili, salvo accorgersi poi più tardi di trovarsi in un vicolo cieco.

Lotta contro l’allargamento
Se le parole di Onaga si trasformeranno in realtà sta al tempo dirlo. Di certo c’è che la lotta contro l’allargamento di Camp Schwab ha fin qui vissuto momenti di alta tensione culminati nell’arresto – a febbraio di quest’anno davanti alle barriere d’ingresso della base – di due manifestanti in circostanze non chiare. Per qualcuno, un tentativo delle autorità militari Usa e delle forze dell’ordine giapponesi di zittire la protesta. Su Henoko infatti Tokyo e Washington non sembrano voler mollare la presa, ignorando qualsiasi protesta degli abitanti locali. L’impressione si è ulteriormente rafforzata durante la visita del Segretario alla Difesa americano Ashton Carter a Tokyo il 9 aprile scorso. A seguito dell’incontro con il suo omologo giapponese Gen Nakatani, Carter ha condannato ogni ipotesi di uso della forza nei mari contesi dell’Asia-Pacifico da parte della Cina e approvato la decisione del governo Abe di consentire alle Forze di autodifesa giapponesi entrare in azione all’estero in nome dell’autodifesa collettiva, di fatto scavalcando l’articolo 9 della costituzione postbellica giapponese.

Toni concilianti e incidenti
Ma si è parlato anche della situazione a Okinawa. E i toni non sono stati concilianti. «Il trasferimento a Camp Schwab è l’unica soluzione per evitare di continuare a usare la base aerea di Futenma», ha dichiarato Nakatani. La base aerea di Futenma, a Ginowan, poco fuori da Naha, capitale della provincia di Okinawa, è diventata il simbolo della difficile convivenza tra persone e macchine da guerra.

L’installazione militare occupa una striscia di terra nel mezzo di un centro densamente abitato. Decine di aerei – tra cui gli Osprey MV-22, la cui storia di volo è segnata da incidenti – sorvolano ogni giorno i tetti di case e scuole, rendendo la vita degli abitanti difficile. Inquinamento atmosferico e acustico, uniti al terrore di un incidente fatale.

Nel 2004 un elicottero Usa piomba fuori controllo su un edificio amministrativo del campus della Okinawa International University, a poca distanza da Futenma. Il bilancio è di soli tre feriti – i membri dell’equipaggio – dato che l’ateneo è in chiusura estiva, ma l’episodio basta a suscitare la protesta popolare. Secondo dati diffusi dalla Nhk, la tv pubblica giapponese, dal 1972 sono stati almeno 44 gli incidenti che hanno coinvolto velivoli militari Usa a Okinawa, l’ultimo dei quali nell’agosto 2013, all’interno della base aerea di Kadena.

Spostare la base
«Spostare Futenma non risolverà il problema delle basi americane a Okinawa», aveva dichiarato nel 2010 ad Al Jazeera Hiroshi Ashitomi, ancora oggi a quasi settant’anni uno dei leader della protesta di Henoko. La presenza delle basi militari americane ha contribuito all’inquinamento di suoli e fondali marini. Appena lo scorso anno è stato confermato il ritrovamento di oltre 60 barili di agente arancio, il defoliante usato durante la guerra in Vietnam, in un terreno a pochi chilometri da Okinawa City, seconda città dell’isola. Questo nonostante le ripetute smentite del Pentagono sulla presenza di armi chimiche sull’isola seguite all’avvelenamento da gas nervino di 23 soldati nel 1969.

Crimini dei militari
Ci sono poi i casi più noti di crimini compiuti dai militari Usa a danno delle popolazione locale: in particolare furti, scippi, investimenti alla guida in stato di ebbrezza e stupri. Nel 1995 tre membri del personale di stanza a Camp Hansen, due marine e un soldato, rapiscono e stuprano una bambina di 12 anni. Nel 2008, un altro caso simile, sempre a danno di una minorenne.

Dal 1972 si contano quasi 6 mila crimini contro la popolazione civile imputabili al personale militare americano, scrive il sito closethebase.org.

Ma il rischio di nuovi «incidenti» è sempre dietro l’angolo: i militari godono di una sorta di diritto di extraterritorialità e quindi non sono punibili dalla legge giapponese. Nel 1952, alla fine dell’occupazione militare del Giappone da parte delle forze americane sancita dalla firma del trattato di San Francisco, Okinawa rimase a Washington: una pedina di scambio che Tokyo decise di sacrificare in nome della propria autonomia territoriale. Per vent’anni, l’arcipelago di Okinawa rimase sotto l’autorità militare Usa, venendo di fatto escluso dal boom economico postbellico.

Mentre Tokyo e le principali città dello Honshu – l’isola principale del Giappone – si sviluppavano a ritmi mai visti prima di allora (tra l’8 e il 12,5 per cento), Okinawa rimaneva un campo d’addestramento, senza legge se non quella di esercito e marina degli Stati uniti d’America.

Ritorno alla sovranità
Il ritorno delle isole alla piena sovranità giapponese nel 1972 non risolse di molto la situazione. Nella pratica Okinawa rimaneva – ed è tutt’ora – un pezzo di Stati uniti in mezzo al Mar cinese orientale. Sono oltre 25 mila i militari di stanza in oltre 30 strutture militari che in totale occupano quasi il 20 per cento del suolo calpestabile sull’isola di Okinawa. Con un ritorno molto basso per l’economia locale: oggi le basi contribuiscono al 5 per cento del reddito dell’isola, che proviene principalmente dagli aiuti di Tokyo e dal turismo.

Il problema maggiore è la disoccupazione che al 7,5 per cento è la più alta di tutto l’arcipelago giapponese. Anche per questo, il nuovo governatore Onaga punta a restituire le basi all’uso civile. Il caso di Omoromachi, ex base militare trasformata in distretto dello shopping e dell’intrattenimento nel centro di Naha, è simbolico. «Una volta ci lavoravano in 300 – ha spiegato nel 2012 l’ex governatore di Okinawa Masahide Ota a Jon Mitchell del Japan Times, oggi – oggi in 30 mila». Ma questo non rientra nel «grande piano» strategico globale degli Usa.

A un passo da Taiwan, Okinawa pare una pistola puntata contro la Cina. Come 160 anni fa, quando il commodoro Matthew C. Perry, l’uomo che forzò l’ingresso del Giappone nell’economia globale, vi approdò e tentò di convincere il Congresso a occuparla, Okinawa ancora una volta è la «chiave di volta del Pacifico».