Tra poco il parlamento convertirà in legge il Decreto legge che riduce la pressione fiscale di 80 euro mensili per i redditi fino a 26 mila euro. La discussione è contaminata da luoghi comuni e slogan che proprio non aiutano a capire l’oggetto. Il problema non è votare favorevolmente o meno. Il governo ha il coraggio di scegliere una categoria: la classe media, ancorché in modo transitorio. Sono i lavoratori dipendenti e gli assimilati (come i co.co.pro), ma tra questi sono esclusi i contribuenti con l’imposta lorda Irpef minore o uguale alla sola detrazione da lavoro, quelli che hanno redditi inferiori a 8.145 euro se percepiti per l’intero anno, circa 3 milioni di soggetti, e restano fuori anche i pensionati (A. Zanardi, S. Pellegrino). Se fossi parlamentare voterei a favore, nella consapevolezza che il provvedimento deve essere ripreso nella Legge di Stabilità. Per conoscenza: il provvedimento è una tantum!

La domanda che dobbiamo farci è la seguente: il bonus di 80 euro è una misura che interessa la corretta distribuzione del carico tributario in senso stretto, oppure una misura che distribuisce il carico fiscale all’interno di una sola categoria di reddito? C’è del buono nella riduzione del carico tributario verso il lavoro dipendente, ma fino a quando una parte consistente dei redditi non entra nella base imponibile irpef, parlare di giustizia fiscale è forse troppo. È un passo (una tantum) che deve inserirsi in una riforma del sistema fiscale profonda. Nella legge di stabilità, previo ordine del giorno che accompagna il voto al decreto legge, deve trovare spazio la riforma (vera) del fisco italiano. Ormai fa acqua da tutte le parti.

Riprendendo un prezioso contributo di V. Visco (Paolo Bosi e M. Cecilia Guerra, 2012, I tributi nell’economia italiana, ed. Il Mulino) è possibile declinare l’inadeguatezza del provvedimento se consideriamo che: «erosione ed evasione … rendono l’Irpef una imposta assolutamente non assimilabile al modello teorico di riferimento … non siamo in realtà di fronte ad una imposta sul reddito, ma ad una imposta solo su alcuni redditi. La situazione sarebbe molto discutibile già per una imposta proporzionale, ma trattandosi di una imposta progressiva, essa appare chiaramente insostenibile e inaccettabile». Inoltre, molti redditi sono tassati diversamente: i redditi dell’agricoltura solo in parte colpiti; l’industria è più gravata dei servizi; il lavoro dipendente più del lavoro autonomo; la grande impresa più della piccola; i redditi da attività finanziarie, cresciuti esponenzialmente con la crescita dei debiti (pubblici e privati), sfuggono alla progressività. L’adeguamento dell’imposta sulle rendite finanziarie dal 20 al 26% non muta la differenza di trattamento. Si poteva inserire questi redditi nella dichiarazione irpef, affidando all’irpef il ruolo storico che i padri costitutivi (Cosciani) gli aveva assegnato. Cosciani prevedeva non solo una semplificazione del sistema impositivo, ma indicava nell’irpef, irpeg e Iva le pietre angolari del nuovo sistema. A queste imposte si doveva aggiungere una forma di imposizione patrimoniale destinata ai comuni per realizzare la discriminazione qualitativa e una imposta monofase, anche questa comunale, a completamento dell’Iva che doveva arrestarsi alla fase precedente al dettaglio. Inoltre, i così detti redditi finanziari dovevano concorrere all’imponibile dell’imposta personale.

Impegnare il governo nella riforma del fisco italiano, partendo dalla preziosa esperienza di Cosciani e Visentini, sarebbe un primo passo per ripristinare quel tanto di buon senso che nel fisco italiano servirebbe, mettendolo al riparo da provvedimenti un tantum che amplificano l’ingiustizia fiscale, nella consapevolezza che la riduzione della tasse non crea sviluppo, piuttosto redistribuisce il carico tributario.