Era il 17 giugno del 1994, il giorno dell’apertura dei mondiali di calcio a Chicago, ma un’America già poco attenta all’ignoto torneo stava per essere distratta da un altro evento dai risvolti sportivi. Quel pomeriggio le televisioni, ad una ad una, accesero dirette su un singolare evento a Los Angeles. OJ Simpson eroe del football americano, invece di costituirsi in questura dove era atteso con l’accusa di duplice omicidio, era salito sulla sua Ford Bronco bianca e da un’ora conduceva una armata di volanti del LAPD in un surreale inseguimento sulle freeway di LA. Di lì a poco noi inviati stranieri, assieme a ogni giornalista vivente in America ci saremmo trovati a seguire e cercare di spiegare una vicenda inspiegabile. Non tanto il romanzo criminale al centro del sordido episodio di cronaca ma il corollario psico-mediatico che si sviluppò tutto attorno fino ad avviluppare la nazione in un turbine mediatico senza precedenti. Al centro del vortice quello che era sembrato un caso abbastanza chiaro di colpevole femminicidio si caricò di valenze politico-sessuali e inevitabilmente di una dimensione razziale nella città ancora traumatizzata dalle rivolte afro americane di due anni prima.

Venti anni dopo OJ (nel frattempo l’ex atleta è tornato in carcere in Nevada per una aggressione a un collezionista di memorabilia sportiva) torna ora in tv in The People vs. OJ Simpson: American Crime Story una miniserie prodotta da Nina Jacobson e diretta da Ryan Murphy (Glee, American Horror Story). Le dieci puntate in onda dal 2 febbraio su FX, sceneggiate da Scott Alexander e Larry Karaszewski, collaboratori di Milos Forman (People vs. Larry Flynt Man on the Moon) e Tim Burton (Ed Wood e Big Eyes) rivisitano la vicenda in un registro operativo che restituisce tutta la dimensione assurda del processo e allo stesso tempo ne approfondisce il significato pop culturale.
Il momento voyeuristico nazionale unì effettivamente cultura alta a trash e pop, rotocalchi patinati e autori importanti arrivati da New York – fra questi un giovane ex magistrato inviato del New Yorker: Jeffrey Toobin, che avrebbe scritto The Run of his Life: The People vs. OJ Simpson, il libro servito da guida alla sceneggiatura.

Nella fiction un cast corale incarna, con pathos da telenovela, i personaggi che assursero allora a fama nazionale: l’avvocato Robert Shapiro (uno straordinario John Travolta), il suo collega sul «dream team» Johnnie Cochran (Courtney B. Vance), il pubblico ministero Marcia Clark (Sarah Paulson, nuovamente musa di Murphy di cui è collaboratrice fissa nelle cinque stagioni di American Horror Story), Robert Kardashian (l’amico e confidente di Simpson è David Schwimmer, era Ross nella sit com Friends) e Cuba Gooding Jr. nei panni di Simpson.

Il distacco di due decenni permette alla fiction di rimontare il processo nella dimensione di surreale melodrama in cui la questione giudiziaria venne sommersa sotto una montagna di gossip e vicende estranee e strumentalizzate dalla difesa. Una fiera delle vanità che scoperchiò l’oceano di vacuità e narcisismo sottostante le élite mondane (e quelle politico-giudiziarie sempre inestricabili a LA).

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Un mondo rappresentato in maniera geniale da Murphy e dal suo ottimo cast in una serie che in definitiva racconta il canto del cigno di una mediasfera pre-internet, ma anche i prodromi dell’attuale cultura della celebrità. Un teatro dell’assurdo che conteneva comunque i semi del presente, un contrappunto grottesco a precedenti tragedie del secolo americane eppure per certi versi altrettanto significativo. Ancora oggi (come una precedente generazione con Kennedy) una buona parte degli americani si ricorda cosa stesse facendo nel momento in cui la Bronco di OJ sfrecciò sulle freeway mentre la folla si accalcava sui cavalcavia incitandolo…

Abbiamo incontrato a Los Angeles regista, produttore, autori e alcuni componenti del cast:
(Nina Jacobson): Vent’anni fa quell’inseguimento surreale unì il paese davanti ai teleschermi e il processo che seguì lo spaccò in due. E le correnti sotterranee che generò sono le stesse che continuano oggi ad attraversare il paese, amplificate da internet e dalla capacità di condividere istantaneamente l’universo mondo
La vicenda in qualche modo inaugurò l’era del reality trascinando il paese nell’attuale presente. Voi lo rivisitate in un senso drammatico – è la rivalsa della fiction sul «reale»?
(NJ): Fu proprio così, il processo segnò l’inizio dell’era all-news e del ciclo di 24 ore. Il mondo in cui il consumo dell’informazione prevede ed esige l’escalation del sensazionalismo. Il lusso della trasposizione drammaturgica invece è avere a disposizione 10 ore per raccontare la storia attraverso i personaggi, esplorando le dimensioni emotive seppellite nella diretta. Attraverso l’umanizzazione dei personaggi si può giungere alle verità nascoste e ai temi sottesi. Ci auguriamo che la serie stimoli la gente a rivisitare il caso e riaprire un dialogo su di essi.

(Ryan Murphy): «Non ci interessa tanto riaprire il caso o sapere se OJ fosse o meno colpevole, quanto esplorare il modo in cui si arrivò a quel verdetto, quali furono le dinamiche fra accusa, difesa e giuria. Abbiamo voluto raccontare la storia della spettacolarizzazione. Personalmente all’epoca come molti ne fui ossessionato e credo che rappresenti l’inizio di qualcosa di epocale nella nostra cultura, l’apoteosi di un ossessione per la celebrità che aveva sempre covato e che di colpo esplose. Un soggetto affascinante».

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(Jeffrey Toobin): Fu un caso che mise assieme tutto ciò che appassiona l’America: razza, sesso, violenza, Hollywood sport…e l’unico testimone oculare era un cane (ride). Una combinazione perfetta. Internet non c’era ancora e le news via cavo era solo la CNN, l’ultimo momento prima che i media si frammentassero in mille canali e quindi un evento singolarmente unificante. Nacque poi un nuovo mestiere: quello di analista legale per la tv che prima non esisteva. Io e i miei colleghi come Dan Abrams, Cynthia McFadden o Greta Van Susteren siamo un pò la «OJ generation». Trovo straordinario come una storia vecchia di vent’anni, che almeno a grandi linee tutti pensiamo di conoscere, possa risultare talmente fresca nella versione «romanzata». È merito dell’intelligenza e dell’energia degli autori che attraverso i personaggi toccano temi tuttora di totale attualità. Si tratta in definitiva di una storia su razza e sistema penale, cioè cose di cui parliamo tuttora ogni giorno alla CNN quando trattiamo di Ferguson o di Staten Island o del South Carolina (luoghi di recenti omicidi di polizia, ndr).

(Cuba Gooding): Fu fondativo per moltissimi versi – voglio dire in fondo dobbiamo ringraziare il caso OJ se oggi conosciamo il clan delle Kardashian. Fu il momento in cui la celebrità precipitò definitivamente dal suo piedistallo e cadde fra tutti noi. E oggi con la rete e i blog ognuno può essere celebre. È buffo perché da un lato ha reso noi attori meno rilevanti e dall’altro ha posto la sfida di interpretare una realtà già conosciuta da tutti. L’America negli anni 90 cambiò rapidamente e questo in parte fu dovuto anche al processo OJ.

(Sarah Paulson): «Ricordo di aver guardato il processo all’epoca anche se avevo 15 anni, andavo al liceo. Ricordo perfettamente il pubblico ministero Marsha Clark e confesso di sentirmi in colpa come donna per aver accettato la rappresentazione che ne fecero i media – le insinuazioni su che tipo di donna fosse. Anch’io fui suscettibile a quegli attacchi che vennero fatti ad una donna che osava operare in un mondo del tutto maschile, una specie di «stronza». Una impiegata statale spinta sotto i riflettori nazionali in una rappresentazione per cui non era preparata. C’erano giornalisti che la inseguivano cercando di consigliarle un rossetto o offrendole il trucco. A nessuno naturalmente sarebbe venuto in mente di fare lo stesso con un uomo. Finì per essere giudicata più lei che l’imputato – per le sue gonne troppo corte o l’acconciatura non abbastanza alla moda – e finì sotto accusa più della misoginia dell’imputato.

(Courtney B Vance): «La cosa che davvero mi ha più colpito è quanto poco in fondo siano cambiate le cose. E così a 20 anni di distanza, siamo ancora fondamentalmente ignoranti gli uni degli altri. Lo dimostra l’abisso sulla questione dei giovani neri ammazzati dalla polizia.»

(CBV): «Cosa abbiamo davvero imparato? L’America è un melting pot ma nel calderone gli ingredienti rimangono fondamentalmente separati…».