La raffineria di Abqaiq è il tallone d’Achille dell’economia globale perché qui viene lavorato il 70% del petrolio saudita: questo non vuol dire che dopo gli attacchi di sabato ci sia meno greggio perché i giacimenti non sono stati colpiti.

Ora si tratta di vedere quanto tempo sarà necessario per riparare i danni. Sebbene lunedì le quotazioni del greggio siano schizzate per l’evidente vulnerabilità dell’Arabia saudita e la crescente conflittualità regionale, sono scese subito dopo perché sui mercati i barili di petrolio ci sono.

In attesa di fare cassa vendendo shale oil, un funzionario statunitense ha riferito alla Cnn – senza fornire prove – che i droni e i missili cruise sarebbero stati lanciati dal territorio iraniano vicino al confine meridionale con l’Iraq, avrebbero attraversato lo spazio aereo del Kuwait (che apre un’inchiesta) per colpire una dozzina di volte, da nord, la raffineria di Abqaiq.

I droni e i missili volavano basso, avrebbero evitato di passare sul Golfo persico per non essere intercettati dai radar statunitensi e sauditi. Tutti concentrati su quel braccio di mare e, per quanto strano, non sul deserto. Washington esclude che l’attacco sia partito dal sud-ovest della penisola araba come rivendicato dai ribelli Houthi yemeniti.

Di certo non da una distanza di 770 chilometri, quella che separa lo Yemen dalla raffineria di Abqaiq. La raffineria è protetta da eventuali attacchi di terra, e infatti al-Qaeda non era riuscita a colpire. Pur essendoci i missili Patriot a difenderla, si è rivelata vulnerabile ai droni. Saranno così sofisticati da bypassare il potente sistema di difesa made in the Usa? Oppure qualcuno ha disinnescato i meccanismi di difesa?

Un’ipotesi da non sottovalutare: ad avercela con il regime saudita sono gli yemeniti, stremati da quattro anni e mezzo di bombardamenti, e anche la minoranza sciita che risiede nella regione orientale dell’Arabia saudita, dove sono avvenuti gli attacchi. Ma a non avere interesse sono gli iraniani perché pagherebbero un prezzo troppo alto.

Secondo un ingegnere già alle dipendenze della società petrolifera saudita Aramco (che preferisce mantenere l’anonimato), «nel giacimento di Khurais le operazioni dovrebbero riprendere in tempi rapidi anche se non a pieno regime perché i droni e i missili hanno colpito due dei cinque processing trains e si sarebbe perso il 40% della capacità. Nella raffineria di Abqaiq (che prepara il petrolio dei giacimenti di Ghawar, Shaibah e altri pozzi per l’esportazione) la situazione è più grave: le immagini satellitari mostrano segni di impatto su quasi tutti gli undici sferoidi, ovvero sui grandi contenitori per separare gas e petrolio, fondamentali per ridurre la quantità di gas naturale nel greggio prima di mandare il petrolio nelle colonne di stabilizzazione. Se gli sferoidi non sono operativi, la raffineria rischia di fermarsi».

«Non è chiaro se gli undici contenitori sono stati punteggiati dai proiettili o solo ammaccati. Se sono stati punteggiati, il danno è grave: non è detto che si possa mettere una pezza e la produzione riprenda in tempi brevi. Non è mai capitato di dover riparare uno sferoide e, prima di rimetterlo in funzione, Aramco vorrà essere certa che siano perfettamente integri: in caso di danno strutturale, rischiano di esplodere».

Iin ogni caso, aggiunge l’ingegnere, «non lavorano mai tutti e undici a piena capacità, è sufficiente che sei sferoidi siano intatti. In caso contrario andrà per le lunghe anche perché questi contenitori sono costruiti appositamente».

Inoltre, «ad Abqaiq sono stati colpiti gli impianti di stabilizzazione, ovvero le colonne che riducono la quantità di acido solfidrico gassoso nel greggio e lo portano a livelli sicuri per caricarlo nelle petroliere». Un attacco che però non diminuisce la quantità di greggio: per un po’ i sauditi dovranno limitarsi a esportare il petrolio senza raffinarlo.