Far sopravvivere l’opera lirica come puro diletto per pochi spettatori privilegiati, anche se a momenti sembra fotografare una condizione ineluttabile, è ovviamente un principio inaccettabile. Anche se non mancano i cultori di tale privilegio, per i quali l’opera va riproposta sempre tale e quale, quasi un reperto archeologico, con malcelata insofferenza per ogni possibilità di cambiamento e sviluppo della sua messinscena, e qualche sbraitare di viscere contro quella che ritengono una vera profanazione, ovvero la regia e l’approfondimento drammaturgico dell’opera musicale. Nonostante il lavoro importante condotto in campo lirico prima di lui da artisti come Luchino Visconti e Giorgio Strehler, a Luca Ronconi toccò agli inizi subire attacchi feroci, se non cruenti, da parte di una pattuglia critica (anche nei ranghi della «sinistra») assai infastidita dai suoi interventi, che pure svelavano delle opere aspetti inusuali, e certo appassionavano un pubblico più vasto e vitale, pur nell’assoluto rispetto della partitura e del libretto.

Da allora molto tempo è passato, e forse non sono mancati neppure gli eccessi «modernizzatori» di qualche dissacratore eccessivo. Oggi il problema si pone seriamente, non per pura questione di gusto, ma perché continuando a mancare la musica nella formazione scolastica, l’opera in particolare finisce per venir rinchiusa in un una nicchia angusta, mentre non sono diminuiti (anzi piuttosto accresciuti) i suoi costi economici. La lirica riceve una parte esorbitante dell’intero Fondo unico per lo spettacolo, senza avere in cambio un bacino di pubblico che la ripaghi. Sarebbero discorsi risaputi e «noiosi», se la crisi non rendesse la situazione davvero tragica. E non a caso appare quasi un «miracolo», di attenzione e di buona volontà, quello di alcuni enti lirici che puntano ad aumentare il proprio pubblico e il richiamo dell’opera inserendola nel gusto e nella sensibilità più contemporanea, usando le possibilità offerte dall’incrocio con altri linguaggi artistici, come questa pagina vuol documentare.

La Fenice di Venezia ha in questo campo una tradizione nobile e quasi secolare, per la presenza lungo il 900 della Biennale, che ha fatto sì che su quel sito glorioso sia nata la migliore ricerca del secolo. E come era già avvenuto in anni recenti con Kiefer, Mariko Mori e altri nomi di riguardo in campo artistico, è proprio la partnership tra Biennale e Fenice a presentare in questi giorni una originale e sorprendente versione della Norma di Bellini (fino a sabato 6 giugno, giovedì 4 su Rai 5, ore 21.15). A occuparsene è stata infatti una delle firme più prestigiose della esposizione di arti visive attualmente in corso a Venezia, la statunitense Kara Walker. L’artista afroamericana, che firma regia, scene e costumi di diseguale incisività, dichiara esplicitamente di voler leggere l’opera di Bellini in chiave «africana», riconoscendo dei crediti alla lettura di Conrad.

Non è detto che questo trasformi davvero in tragedia «subsahariana» il sentimento di Norma e la sua drammaticità (che nasce da un incrocio classico tra le figure di Medea e Didone) raccontata nel libretto di Felice Romani così pronto a veicolare l’empito belliniano. Le immagini sono belle e fortissime: maschere e sagome che sembrano rispondere dal vero sud del mondo alle giungle del doganiere Rousseau, costituiscono un segno lancinante, uno stato interiore che si allarga in proiezione su velari e sipari come un’analisi che giganteggi al microscopio. I costumi sono inventivi e di colore deciso, benché molto curiosi attorno a quelli giusti e perfetti dei protagonisti: i sacerdoti indossano abiti da sera di un rosso sgargiante ma femminili, le sacerdotesse del tempio hanno un aspetto candido ma che si dilata smodato sui fianchi, quasi fossero in fila nell’anticamera di un centro Weight Watchers; il gran sacerdote ha per copricapo una sorta di istrice, e così via. L’aspetto più debole è però proprio nella regia, che non integra i movimenti di coro e mimi con le spirali e le sinusoidi che movimentano le belle immagini della Walker.

Per fortuna la direzione di Gaetano d’Espinosa e le belle voci dei protagonisti costruiscono un fitta trama che garantisce il senso dell’opera: Norma è Carmela Remigio di grande forza attrattiva, Gregory Kunde dà spessore e potenza a sentimenti e tradimenti di Pollione, così come con smaliziato gusto scenico si muovono Oroveso di Dmitry Beloselskiy e l’Adalgisa di Veronica Simeoni. Il pubblico è contento di scoprire una radice anticoloniale di Norma attraverso il tratto inquietante e seducente di Kara Walker.