Forse l’infatuazione del papà autodidatta per la cultura greca antica può spiegare la scelta del nome Socrates per il suo primogenito (e quella di Sostenes e Sofocles, due suoi fratelli) nato nel 1954 a Belem, una città tropicale sul Rio delle Amazzoni, diventato un fuoriclasse del calcio, una leggenda della cultura antagonista. In qualche modo lo spirito filosofico, frutto di ampie letture e di grande curiosità verso la vita, ha accompagnato la complicata vicenda esistenziale di Socrates (Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, il suo nome per intero), divo del football brasiliano, leader naturale, laureato in medicina, politicamente schierato e impegnato in numerose cause sociali, un personaggio che ha oltrepassato i confini del calcio e dello star system.

DA ANNI IN BRASILE per Reuters, il giornalista Andrew Downie ha ricostruito la sua corposa biografia, nel libro Il dottor Socrates, calciatore, filosofo, leggenda (pp. 320, euro 19.90, Milieu edizioni, introduzione Darwin Pastorin, prefazione Johann Cruyff) secondo la tradizione da reporter anglosassone, con centinaia di interviste e incontri, voci diverse e un libro autobiografico inedito di memorie, raccogliendo episodi e aneddoti famosi («al suo arrivo nel nuovo club, la Fiorentina, Socrates si aggregò ai compagni per una serie di visite mediche. Mentre aspettava il suo turno per salire sul tapis roulant per i test cardiaci e respiratori, con nonchalance si accese una sigaretta. Quando il dottore entrò nella stanza non voleva credere ai suoi occhi. ‘Ma che sta facendo, fuma? Stiamo per fare la spirometria!’, gridò. ‘Appunto dottore, mi sto scaldando i polmoni’, rispose lui impassibile. I compagni scoppiarono a ridere e il medico uscì disgustato dalla stanza»).

ALLAMPANATO (194 centimetri per 84 chili), gracilino e con scarsa massa muscolare per la sua allergia agli allenamenti (soprannominato Magrao dagli amici), aveva una straordinaria visione di gioco, tanto che passava al meglio la palla al compagno (di tacco, di testa, d’esterno, di punta, di piatto, con la suola e persino girato, oggi si dice no look) con irresistibile fiuto del gol (più di 300 reti segnate in 700 gare in carriera). Per evitare gli atletici difensori, negli anni giovanili, aveva dovuto imparare a pensare e giocare in fretta, a uno-due tocchi, ponta de lanca o meia armador, centrocampista avanzato o mezza punta, il suo ruolo con licenza di caracollare per tutto il campo, sin dai tempi del Botafogo di Ribeirao Preto, la sua città natale, che abbandonerà dopo otto anni per il Corinthians, l’equipe paulista dalla maglia nera con le sottili righe bianche dove vivrà le migliori stagioni della sua vita.

CONTESTATORE DI NORME consolidate su sonno, nutrizione e ritiri pre partita, antiautoritario per cultura, metteva il divertimento e l’amicizia al primo posto, a lungo pensò al calcio come un piacevole passatempo continuando a studiare e frequentare l’internato in medicina, «io bevo, fumo e penso» diceva per spiegare la sua dedizione ai piaceri della vita (quattro mogli, una legione di amanti e sei figli) in particolare le feste con cachaca (superalcolico prodotto con la canna da zucchero e bevanda nazionale), birra gelata e alcol, il suo antidepressivo preferito. Capitano della fortissima seleçao sconfitta dall’Italia campione del mondo 1982, artefice della Democrazia Corinthiana, il movimento progressista con l’autogestione dei calciatori che scosse profondamente l’antiquato mondo del calcio brasiliano, mettendo insieme persone assai diverse – un ex leader studentesco come direttore sportivo, uno psicoterapeuta, un terzino sindacalista, un esperto massaggiatore – e condividendo le decisioni, dai nuovi acquisti ai contratti del personale subalterno, attraverso il voto.
Indicando al paese, governato da una dittatura militare dal 1964 al 1985, il cammino verso la libertà, l’eguaglianza e la giustizia sociale, perdendo la battaglia per l’elezione diretta del presidente sebbene Socrates partecipò e parlò alla grande manifestazione di San Paolo, con un corteo di un milione di persone. Nel dicembre 1982, i bianconeri corinthiani vinsero il campionato paulista con la parola Democracia scritta sulla maglia, in quel periodo Socrates festeggiò regolarmente i gol, col pugno chiuso in aria, il saluto militante alla sua torcida.

«GIOCARE per il Corinthians vuol dire rispettare una cultura, un popolo, una nazione – disse più tardi – Giocare per il Corinthians è come essere precettati per una guerra irrazionale e non dubitare mai che sia la cosa più importante mai esistita. È come se ti venisse chiesto di pensare alla stregua di Marx, combattere come Napoleone, pregare come il Dalai Lama, dare la tua vita per una causa come Nelson Mandela e piangere come un bambino». Se ne andò a 57 anni, col fegato distrutto, il 4 dicembre 2011. «Come immagino la mia morte? Se ci penso, vorrei morire di domenica e col Corinthians campione». E così accadde. L’incontro col Palmeiras finì sullo 0-0 e tutto il pubblico salutò quel fratello scomparso con cori e striscioni. Addio dottor Socrate, ribelle tormentato.