Sorride Valeria Golino, felice, felicissima di andare a Cannes (unico titolo italiano nel Certain Regard), era un po’ il suo sogno segreto durante le riprese quello di arrivare sulla Croisette, di salire le «marches» rosse, di farsi le fotografie col vestito bello. Mentre lo dice sembra quasi una bambina, incredula e molto emozionata durante l’incontro romano dopo l’anteprima del suo film. Inciampa un poco nelle parole, l’emozione, la stanchezza pure. Perché Miele, il suo debutto da regista, prodotto con la Buena Onda che ha fondato insieme a Riccardo Scamarcio e a Viola Prestieri, è stato una impresa complicata. La storia intanto, ispirata al romanzo di Mauro Covacich (A nome tuo, Einaudi), che intreccia la vita, la morte, la malattia, la paura e il desiderio di andarsene dal mondo in chi non ce la fa più.

Suicidio assistito ma non eutanasia. Ci tiene a puntualizzarlo Valeria Golino: «La decisione è consapevole del malato che da un certo punto in poi fa tutto da solo». Ma certo anche questo in una realtà culturale (e politica) come l’Italia è più che un tabù, e ci sarà senz’altro qualcuno pronto a polemizzare, a speculare.
«Non volevo fare un film ’contro’ o un film provocatorio ma un film con gli altri» dice Golino. E aggiunge: « I tabù riguardano soprattutto la politica e le istituzioni, credo invece che le persone siano più pronte a confrontarsi su argomenti considerati difficili, che colpiscono i nostri pregiudizi e le nostre convinzioni più intime. Per questo non ho mai pensato di ’prendere una posizione’ rispetto alla storia che racconto, lo considero un gesto che ti libera in qualche modo da tutto il resto. Sono fermamente convinta che ogni essere umano ha il diritto di decidere del proprio corpo, della propria vita e di come porvi fine. Detto questo ci sono poi mille implicazioni che cambiano secondo la situazione, è il motivo per cui ho voluto raccontare questa storia».

É quanto capita a Irene che fino a lì aveva separato con determinazione il lavoro dalla sua vita, ma poi le capita il professor Grimaldi, ironico con lo sguardo che scruta dentro, e le cose cominciano a confondersi insieme alla sua determinazione. Rispetto al romanzo, «un libro fulminante» lo definisce, che Golino ha pensato subito di trasformare in un film, molto è stato cambiato da lei e dalle sceneggiatrici, Francesca Marciano e Valia Santella. Per esempio il finale, in cui qualcuno vede un accenno alla scelta di Mario Monicelli di volare giù dall’ospedale dove era ricoverato – lei conferma: «La notizia di Monicelli ha influenzato la nostra scrittura». Anche se poi quella figura di intelletuale aspro e seduttivo possiamo ci fa pensare a Lucio Magri con la sua scelta di morire… Ma le sinergie o le differenze rispetto al romanzo sono ormai poco importanti. Il film è un’altra cosa, un’altra storia.

«É rimasto lì a lungo. ci piaceva a tutti ma avevamo paura di un primo film così difficile» dice ancora Golino. E poi la paura è passata, ci sono stati incontri importanti (a cominciare da Raicinema e da De Paolis che distribuisce con la Bim), e molto ha contato tenere un budget non alto.

Nè lei nè Scamarcio hanno mai pensato di essere anche attori per diversi motivi. Dice lui: «Ci dicevano questo è due film in uno il primo e l’ultimo! Scherzo ma fare il produttore è faticoso e impegnativo, non rimane tempo per altro».

Golino invece era convinta che la donna protagonista dovesse essere più giovane di lei, una trentenne, l’età di Jasmine. «Ero molto più curiosa di filmare qualcun altro, e Jasmine diventa più bella man mano che ti avvicini a lei che ti viene voglia di continuare a filmarla».
E c’è davvero un’alchimia speciale che le unisce, un’intesa complice e profonda. Dice Trinca: «Quando mi guardo non mi piaccio mai, stavolta mi sono piaciuta. Il mio personaggio porta con sé una sofferenza e per questo si doveva stare attenti. Dal primo momento però mi sono affidata completamente nelle mani di Valeria».
La paura si diceva. Prima e dopo. «Un film come questo presenta molte trappole – dice Valeria Golino – Io non volevo che andasse solo in una direzione, volevo che fosse libero e formale. Ci sono tante cose belle che abbiamo lasciato fuori ma era come se il film non potesse sopportarle, gli avrebbero dato un carico estetizzante che non era il suo. Ho preso molto dai registi con cui ho lavorato, ma era importante per mantenere la contraddizione tra vita, luce, vita e morte, la contraddizione che è il punto di partenza».