Marija Stepanova, ogni conflitto si prolunga nello strazio del linguaggio
Riavvolgendo il filo di quella intricata matassa che è il suo romanzo Memoria della memoria, Marija Stepanova ha rinchiuso in una immagine pregnante l’aspirazione recondita che l’aveva animata nel corso della scrittura: «Il mio intento era far sì che al lettore venisse voglia di trasferirsi, armi e bagagli, nel mio labirinto verbale».
Abitare un dedalo affabulatorio, fatto di digressioni, citazioni colte e repentine stoccate emotive, è anche quanto spetta a chi si inoltri, gomitolo alla mano, nella sua eterogenea produzione poetica, cui di recente si è aggiunta la silloge La guerra delle bestie e degli animali (a cura di Daniela Liberti e Alessandro Farsetti, Bompiani, pp. 256, € 20,00).
I cinque testi raccolti confermano la tendenza di Stepanova a prediligere, rispetto all’improptu lirico, forme di ampio respiro, come quella della ballata o del poema, rielaborate con distacco post-moderno e con una energia deflagrante che ha spinto il critico Boris Paramonov ad avvicinare l’autrice nata a Mosca nel 1972 ai cubo-futuristi e ai poeti alogici dell’avanguardia. Al tempo stesso, i suoi versi sembrano scritti da un Io femminile dai confini instabili, che ha rinunciato a una individualità definita per aderire a quella metamorfosi continua che, sebbene inavvertita, contraddistingue secondo Stepanova l’esistenza umana. Proprio su questo desiderio di dare alla propria voce una fluidità proteiforme si è concentrata la nostra conversazione, a Napoli, poco prima che l’autrice intervenisse al Festival della Lettura e dell’Ascolto.
Nella sua poesia è fondamentale il ruolo svolto dalla parola altrui, quella dei poeti russi, e non solo, ma anche quella proveniente da canzoni e slogan sovietici. Sembra che la sua voce poetica sia definita proprio da questo continuo gioco citazionale. È così?
Vorrei che lo fosse. Il mio modo di esistere sulla lingua sta in questo discorso fra voci diverse – a volte anche fra culture e lingue eterogenee. Qualche decennio fa, quando ho cominciato a scrivere, regnava la convinzione che un poeta dovesse trovare una propria voce unica, da mantenere immutata per il resto della vita. Questa associazione fra una persona e una sola voce mi sembra molto limitante, così come lo è, del resto, l’idea che l’identità umana sia inalterabile.
Nel suo poema «Spolia» un personaggio ignoto, forse maschile, rimprovera a una non meglio precisata «lei» di non essere «capace di parlare per sé» e di «essere mille voci». C’è qualcosa di autobiografico in questa notazione?
L’inizio di Spolia è un montaggio di citazioni pressoché letterali dalle stroncature di quei critici che, anni fa, mi accusavano di non essere in grado di trovare una «mia» voce, e mi fa piacere che lei abbia intuito la natura maschile di quel coro, perché in effetti a parlare erano quasi esclusivamente uomini. Com’è ovvio, le mie poesie andavano in tutt’altra direzione rispetto alle confessioni liriche che, almeno in Russia, ci si attende tuttora da una poetessa. In generale però credo che tutta questa enfasi sulla persona dell’autore sia eccessiva. Quando penso all’Io, mi viene in mente il buco vuoto di una ciambella; da questo buco esce una voce che «tasta» il mondo e lo rende reale. L’istanza concreta da cui proviene questa voce mi pare irrilevante, anche perché come le dicevo, va soggetta a radicali cambiamenti.
In mezzo a tutte queste metamorfosi e a tutte queste voci c’è almeno una costante nella sua poesia?
Direi che c’è una sola cosa che non cambia e cioè una domanda alla quale cerco di rispondere scrivendo: probabilmente, non sono in grado di formularla con chiarezza, ma è legata alla morte come momento di passaggio e a ciò che segue subito dopo. Ovviamente è una domanda gigantesca, difficile da delimitare, simile a un enorme cratere o a un imbuto; mi limito a camminare sui margini di questa immensa buca, nel tentativo di individuarne i contorni.
Il poema «La guerra delle bestie e degli animali» risale al 2015 ed è ispirato agli scontri nel Donbass fra truppe separatiste filorusse ed esercito ucraino. Ora che quel «conflitto a bassa intensità» si è trasformato nell’attuale catastrofe, colpisce ancora di più il suo volgersi all’indietro per parlare del presente, il gioco citazionale che lei qui propone non solo pescando da «The Waste Land», ma anche dal Canto sulla schiera di «Igor’», un testo che si riferisce a Kiev. Come mai ha scelto di dialogare proprio con queste due opere?
Anzitutto perché sono entrambi «poemi del dopo-guerra», testi che cercano di restituire la percezione spaesata di una realtà in cui è cambiato tutto. Ma, a dire il vero, con queste inserzioni di voci diverse mi interessava più che altro infrangere la linearità del discorso poetico sulla guerra. Ogni conflitto è lacerazione, della carne, ma anche del linguaggio. Mi chiedo se la brutalità sia una componente intrinseca della lingua russa, ovvero se il potenziale di violenza di cui osserviamo oggi l’attualizzazione sia iscritto nelle nostre stesse parole. Non penso che la lingua sia colpevole, però ad esempio Paul Celan, per poter scrivere, ha dovuto inventare un tedesco «nuovo», sia dal punto di vista morfologico che grammaticale. D’altronde non c’è lingua che «vanti» un passato imperiale cui sia estranea la violenza. Quello che può fare la poesia, credo, è tentare di delimitare queste zone a rischio. La lingua è come un campo minato dove restano insepolti gli ordigni dei secoli passati. Forse, prendendo coscienza di questa minaccia nascosta, possiamo trasformare il tessuto stesso della lingua. Sogno una lingua russa che diventi consapevole della violenza di cui è stata ed è portatrice.
Nella sua poesia un’immagine ricorrente, che dà anche il titolo a un ciclo del 2020, è quella del «rammendo della vita» (počinka žizni). Come ne spiega l’origine?
Questa metafora non è mia, viene dal chassidismo, secondo il quale ogni essere umano è al mondo per «rammendare la vita», quasi fosse una calza. D’altra parte, è una immagine che per me ha una profonda valenza sentimentale, perché evoca il nome del villaggio sperduto, Počinki, da cui provengono i miei avi materni. Fin dall’infanzia avevo sempre sognato di visitare questo luogo irraggiungibile, pressoché fantastico, e così, quando in seguito mi sono imbattuta di questa idea della mistica chassidica, ho avuto l’impressione che, in fondo, fosse stata mia fin da bambina: la vita ha bisogno sì di počinki («rammendi»), ma anche di Počinki – una sorta di Eden perduto cui tendere.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento