«Ogni adolescenza coincide con la Guerra/che sia vinta, che sia persa» cantavano qualche anno fa Tre allegri ragazzi morti. Dubitiamo che Laurie Nunn, creatrice di Sex Education, conosca il gruppo di Pordenone, ma questo verso potrebbe essere il perfetto sottotitolo della sua serie che ha spopolato su Netflix ed è stata rinnovata per una seconda stagione. Sex Education è ambientata in una scuola superiore di un paesino inglese, ne racconta le complesse dinamiche, le interazioni tra studenti e adulti, quella complicata fase di coming age che, in un modo o nell’altro, tocca tutti a un certo punto. Il protagonista è Otis Milburn (Asa Butterfield, nella foto), il classico ragazzo piuttosto maturo per la sua età ma con una certa difficoltà ad interagire con la maggior parte dei suoi coetanei, eccetto per il suo amico Eric. La madre di Otis, Jean F. Milburn (Gillian Anderson ovvero la leggendaria Dana Scully di The X-Files), è una terapista sessuale di importanza mondiale che soffoca e invade completamente la vita di Otis. Il quale però anche grazie a questa influenza sviluppa una certa sensibilità verso i problemi affettivo-sessuali degli altri e, insieme a Maeve (Emma Mackey), un’altra outcast della scuola, mette su una clinica sessuale per adolescenti.

IL MONDO degli adolescenti quindi modula quello degli adulti e si sviluppa da esso, e le parti più interessanti della serie sono forse proprio quelle dove adulti e adolescenti interagiscono: come una sequenza (episodio tre), dove Maeve – che vive senza genitori in un trailer park – va ad abortire facendo lo slalom tra pro-life e consolandosi con una donna che ha già abortito diverse volte, o le scene di interazioni tra genitori e figli. Non quindi l’adolescenza come un mondo a parte, piuttosto una scoperta di sé stessi e della propria sessualità che avviene malgrado e in dialogo con gli adulti. Le atmosfere che la serie riesce a creare sono la parte migliore, aiutata naturalmente anche dai luoghi dove è filmata e ambientata. Un luogo e un tempo indefinito, per rendere la serie più propriamente universale. C’è un senso di sospensione, ma che non si fa mai assoluto perché i problemi, violenta omofobia inclusa, riappaiono costantemente. Altrettanto forte, e in parte inaspettata, la capacità di evitare stereotipi: certo, tutti i personaggi rientrano in un modello, ma non ci navigano mai come fossero cliché riuscendo spesso a stupire, come del resto altre di serie tv inglesi ambientate a scuola, come la pioniera Skin (2007-2013) o The Inbetweeners (2008-2010).