La piazza della Cgil e la sua domanda clamorosa di politica e di rappresentanza; dall’altra parte la Leopolda, le battute da Bagaglino del presidente del Consiglio e dei suoi fedelissimi.

La forza e il coraggio dei lavoratori delle acciaierie di Terni licenziati; dall’altra parte le cariche della polizia, le manganellate così poco hi-tech, così brutali, così sfacciatamente di destra.

E, infine, il Jobs Act e lo “Sblocca Italia”, crocevia istituzionale di una fase nella quale il Pd potrebbe scegliere di trasformarsi in Partito della Nazione e la sinistra deve uscire, invece e finalmente, dall’irrilevanza.

Perché questo è il punto, che i lettori de il manifesto conoscono bene: nel nostro Paese non esiste, ormai da diverso tempo, un soggetto politico capace di rappresentare, con credibilità ed efficacia, il campo della sinistra. Un soggetto che stia in campo nel vivo di questo passaggio cruciale. È la discrepanza che esiste tra ciò che sarebbe necessario e ciò che siamo stati sin qui a imporre una severa autocritica, a partire da noi. Rifondazione comunista, che per una lunga fase è stata il fulcro della sinistra di alternativa, è vittima di una crisi irreversibile, almeno dal congresso di Chianciano del 2008.

Qui iniziò a delineare una linea e una cultura politica indifferenti al consenso, che hanno teorizzato la bontà dell’extraparlamentarismo come tratto permanente e prodotto la marginalizzazione. Come sappiamo, linea e cultura politica hanno camminato con le gambe di un gruppo dirigente inossidabile e inamovibile, nonostante la responsabilità delle più brucianti sconfitte (crollo degli iscritti, dei militanti, dei voti, del radicamento sociale, della credibilità).

Lo abbiamo detto e scritto, in tanti, e per diversi anni. L’organizzazione giovanile del partito, i Giovani Comunisti, ha provato a lavorare in una direzione diversa. Abbiamo promosso mobilitazioni unitarie, coltivato relazioni con la sinistra giovanile politica e sociale diffusa, sostenuto campagne (dal diritto allo studio al reddito minimo garantito) in sintonia, crediamo, con le aspettative della nostra generazione.
Abbiamo suggerito così un modo diverso di essere comunisti: più attenti alle trasformazioni reali e meno dogmatici, più curiosi e meno impauriti, più innovatori e meno conservatori.
Abbiamo chiesto più coraggio, più fiducia, più rinnovamento a tutti i livelli, proponendo al partito di investire sul proprio futuro, cioè sui giovani. Lo abbiamo fatto, sempre, tenendo a mente la condizione esterna, la nostra insufficienza, il bisogno vitale di ripensarsi, di trasformare.

La risposta ricevuta è stata netta: da una parte la delegittimazione dell’organizzazione giovanile; e dall’altra la demonizzazione (talvolta grottesca) delle sue posizioni.

Ne abbiamo preso atto, confrontando questa realtà con un mondo, fuori, in trasformazione e in fermento. Qui sta il punto di non ritorno, qui sta il senso delle nostre scelte. Per questi motivi abbiamo deciso di non rinnovare l’adesione all’organizzazione giovanile del partito, scegliendo di dimetterci – a partire dal sottoscritto – da tutti gli incarichi.

Sappiamo che non sarà facile, che nulla è scontato, automatico. Ma lo abbiamo visto, anche, a partire dall’appuntamento del 4 ottobre di piazza Santi Apostoli a Roma, che è in campo un progetto politico e un’idea nuova, più credibile, che si pone i nostri stessi interrogativi, i nostri stessi obiettivi e che appare capace di valorizzare le energie attivate con l’esperienza elettorale della lista Tsipras e quelle che, sin qui, non abbiamo saputo intercettare. È questo anche il senso di Sinistra Lavoro, l’associazione a cui abbiamo dato vita nelle settimane scorse.

Vogliamo essere partecipi e protagonisti di una nuova soggettività della sinistra italiana, con radici profonde e radicate nella nostra storia e con la forza, la curiosità, i dubbi che ci era parso tra noi avessimo definitivamente smarrito.

Ce lo chiede il Paese reale, la piazza della Cgil, le manganellate ai lavoratori. Ascoltarli sarebbe già un nuovo inizio.