L’8 gennaio un tribunale del Cairo ha prolungato la detenzione di Islam Khalil di altri 45 giorni. Khalil, attivista politico già vittima di sparizione forzata dal 10 marzo al 1° aprile 2018, è detenuto in attesa di processo per «appartenenza a gruppo fuorilegge». Dorme per terra in una minuscola cella con altre 14 persone. Soffre di mal di schiena ma gli sono negate le cure di cui ha bisogno.

Il 15 gennaio è stata rinnovata la detenzione preventiva, per altri 15 giorni, dell’avvocata Hoda Abdelmoniem. Arrestata il 1° novembre 2018 con altri avvocati per i diritti umani, è «scomparsa» fino al 21 dello stesso mese, poi si sono perse sue notizie dal 2 dicembre al 14 gennaio.

Il 19 gennaio è entrato nella fase finale il processo a Aser Mohamed, arrestato al Cairo il 12 gennaio 2016, all’età di 14 anni, dall’Agenzia per la sicurezza nazionale e desaparecido per 34 giorni. Aser ha denunciato di essere stato torturato, anche con la corrente elettrica, per confessare di aver preso parte all’attentato all’hotel Tre Piramidi, il 7 gennaio di quell’anno, e di aver fatto parte della Fratellenza musulmana. Aser rischia fino a 15 anni di carcere, per un reato cui da tre anni dichiara di essere completamente estraneo.

Il mese di gennaio del 2019 in Egitto è iniziato così. In quello del 2015, alla vigilia dell’anniversario della rivoluzione del 2011, Shaimaa al-Sabbagh, insieme a una trentina di persone, stava prendendo parte alla manifestazione indetta dal Partito dell’alleanza popolare socialista e diretta a piazza Tahrir. Aveva in mano un fiore. Le forze di sicurezza che presidiavano gli ingressi di piazza Tahrir bloccarono i manifestanti in via Talaat Harb e, senza preavviso, iniziarono a lanciare lacrimogeni e a sparare coi fucili da caccia. Shaimaa al-Sabbagh, secondo quanto dichiarato dal direttore dell’Ufficio di medicina legale, venne colpita dai pallini alla testa e alla schiena, da una distanza di otto metri.

Nel gennaio 2016 al lunghissimo elenco degli scomparsi, dei torturati e degli assassinati egiziani sotto la presidenza di Abdelfattah al-Sisi, si aggiunse un nome italiano. Questa sera, per il terzo anno, migliaia di fiaccole illumineranno piazze e strade di ogni parte d’Italia: si accenderanno alle 19.41, l’ora in cui per l’ultima volta Giulio Regeni diede notizia di sé, il 25 gennaio 2016 al Cairo.

Da quel momento, come sappiamo, Giulio è stato inghiottito dalla macchina repressiva sempre in funzione dal 3 luglio 2015, giorno del colpo di stato di Abdel Fattah al-Sisi. Sin dall’inizio chi conosce bene la situazione dei diritti umani in Egitto ha parlato di un «delitto di Stato», di una catena di comando che tiene insieme da tre anni chi ha ordinato il sequestro, la sparizione, la tortura e l’omicidio di Giulio, chi ha eseguito quei crimini e chi ha coperto gli autori, depistando, insabbiando e impedendo ogni significativo passo avanti verso l’accertamento della verità.

I tre anni trascorsi da allora sono passati attraverso il costante impegno della procura di Roma e blande iniziative dei governi italiani. L’unico gesto di «inimicizia», il ritiro dell’ambasciatore dal Cairo nell’aprile 2016, è stato annullato dal provvedimento di segno opposto, il 14 agosto 2017 (quarto anniversario della «Tiananmen egiziana», almeno 800 morti nello “sgombero” di due sit-in della Fratellanza musulmana al Cairo).

L’Egitto è un nostro «partner ineludibile», dichiarò in quella occasione il ministro degli Esteri del governo Gentiloni, Angelino Alfano. Dal ripristino di normali relazioni diplomatiche con l’Egitto è iniziato un periodo segnato dall’infittirsi delle visite, cordialità, cortesia e inviti reciproci. La magistratura egiziana ne ha approfittato per prendere ulteriore tempo e il governo per stringere ancora di più la morsa nei confronti dei difensori dei diritti umani, soprattutto quelli maggiormente coinvolti nella ricerca della verità su Giulio Regeni.

In coincidenza con l’arrivo del nuovo ambasciatore italiano al Cairo, il 10 settembre 2017 è stato arrestato Ibrahim Metwally, presidente dell’Associazione dei genitori degli scomparsi e collaboratore della Commissione. Poi sono iniziate le intimidazioni e le «visite» negli uffici dell’Ong. Infine, il 10 maggio 2018 sono stati arrestati Mohamed Lotfy, presidente della Commissione, e sua moglie Amal Fathy. Mentre Mohamed Lotfy e il loro figlioletto, entrambi con passaporto svizzero, sono stati presto rilasciati, per Amal è iniziato l’incubo.

Su di lei pende una condanna a due anni per un video di denuncia sulle molestie sessuali ed è tuttora in corso un processo per terrorismo. Accuse risibili, che però servono alle autorità del Cairo per portare avanti la loro strategia: tenere in ostaggio la verità, coloro che in Egitto la chiedono e adesso anche i loro familiari.

*Portavoce Amnesty Italia