Jeremy Gilbert è Professor of Cultural and Political Theory presso l’University of East London, e autore, fra gli altri, di Common Ground, edito da Pluto Press nel 2013.

Professore, cosa pensa dell’esito del referendum?
Tra gli elettori working class c’era da tempo una tendenza populista, antielitaria di matrice destrorsa visibile da un discreto periodo, dunque non è stato granché sorprendente. Penso che in molti fossero convinti della vittoria del remain o che comunque ci sarebbe stato un testa a testa. Nel complesso, un esito deludente. Come per molti nella sinistra radicale, la mia era una riluttante posizione per il remain. Era chiaro che la destra avrebbe egemonizzato il voto leave, negli ultimi decenni è mancato un discorso pubblico attivo che criticasse l’Ue da un punto di vista teorico e da sinistra. In realtà forse è una lettura semplicistica del risultato effettivo, giacché la destra era in crisi: in un certo senso non si aspettava di vincere, voleva quasi-vincere. In modo da non doversi assumere responsabilità per le conseguenze di un brexit e poter continuare a incolpare i soliti fattori incontrollabili.

Come dire: non sanno che farsene di quello che hanno inaspettatamente ottenuto facendo finta di volerlo?
È abbastanza accurato dire che non lo volevano. Johnson avrebbe voluto essere il premier di destra populista che poteva dimostrare di fare del suo meglio con i poteri di Bruxelles scaricando su di loro la responsabilità di non essere in grado di controllare l’immigrazione. Ma quando questa strategia si è dissolta… senza contare che le circoscrizioni che hanno votato leave sono del tutto divise quanto alle motivazioni per cui l’hanno fatto. La maggior parte dei commentatori nei media ha sottolineato il voto working class per il leave al nord. Io credo che sia del tutto esagerato, il leave non avrebbe mai vinto senza il consistente apporto del voto tradizionalista piccolo-borghese del sud dell’Inghilterra oltre che al voto postindustriale al nord. Sono due situazioni alquanto diverse. La destra bianca privilegiata, borghese e piccolo-borghese tende vive della fantasia libertaria di un regime fiscale morbido; l’immigrazione la considerano un peso per il contribuente, sono per un approfondimento del progetto neoliberista e vedono l’Ue come un ostacolo. Viceversa, la working class del nord ma non solo – in molti al sud hanno votato leave in solidarietà con il nord postindustriale – sembra aver votato per un assetto economico industriale protezionista e per la promessa di un rinnovo del settore manifatturiero, cose di cui li ha convinti lo Ukip. I quali, benché non lo diano a vedere perché gli procurerebbe noie con i ricchi sponsor, hanno promesso all’elettorato operaio labour un programma di radicale keynesismo del tipo che proponeva Tony Benn e la sinistra labour negli anni Ottanta. Per questo le circoscrizioni del leave erano cosí divise su cosa per cui votare. Sono invece uniti su cosa contro votare: l’immigrazione di massa. Ma sono comunque divisi per le ragioni per cui le hanno votato contro: i primi perché fa salire le tasse, gli altri perché abbassa i loro salari. Quello che entrambi vogliono dal governo nel contesto brexit sono due cose del tutto diverse, anzi opposte. Le leadership Tory e Ukip ne sono perfettamente consapevoli, per questo hanno lasciato la scena: sanno che è una posizione terribilmente scomoda.

Perché proprio ora questo tentativo disperato di rovesciare Corbyn? Forse la sua posizione inesorabilmente critica su Tony Blair ora che c’è l’attesa pubblicazione della Chilcot Inquiry?
È senz’altro una delle ragioni per cui personaggi del tipo di Alastair Campbell (ex-temuto spin doctor plenipotenziario di Blair, Ndr) hanno fatto pressioni perché agissero adesso. Sul putsch direi che nemmeno loro sembravano convinti avrebbe funzionato ma non avevano altro da provare. Nel contesto più generale, il Plp si trova in una situazione in cui perde comunque. È composto da una generazione selezionata da quelli come Peter Mandelson, è gente che viene dal mondo delle pubbliche relazioni d’azienda, abituata a fare un tipo di politica lobbysta che è crollato e ha perso qualunque legittimità anche nel resto d’Europa.

Cosa dovrebbe fare il Labour in pratica per recuperare terreno nel nord quasi tutto in bocca all’Ukip?
In un certo senso né la destra né la sinistra soft del partito laburista sbagliano nel vedere in Corbyn un problema, perché ci vorrebbe un leader capace di imboccare una via marcatamente populista verso un programma di sinistra radicale. In fondo è semplice, basta qualcuno che persuada la working class del nord che non è l’immigrazione che a fregarli ma la finanza della city. Ma Corbyn non ha quel linguaggio: anche se ha qualche elemento marxista nella sua analisi ha più del cristiano socialista, che vede in primis l’aspetto morale della questione

Corbyn ha poco o nulla del Dna marxista continentale.
Decisamente. E basterebbe quell’impostazione per elaborare un argomento convincente con il risentimento sociale soprattutto del nord. Del resto, un altro suo grave errore tattico è stato aprire la discussione sul disarmamento nucleare nel partito. Proprio da uno che da anni ha sempre votato contro il nucleare è un errore tattico incredibile. A lui non interessa, ha una missione morale da compiere. Ma soprattutto dovrebbe procurare un approccio nuovo sull’impatto che ha l’immigrazione rispetto alla working class, perché la sinistra l’ha perso svariati decenni fa e non so se possa ancora esserlo il metodo di campagna tradizionale che parte dall’interno delle comunità per informare e spiegare. È una sfida enorme non solo per la sinistra. Dalla fine degli anni Sessanta e con l’inizio della deindustrializzazione c’è una parte della working class in questo paese che ha finito per orientarsi verso una forma di nazional-socialismo senza naturalmente il corredo eugenetico razzistico: però vuole un welfare keynesiano protezionista, forte nella difesa militare e amante dell’ordine.

Corbyn non dovrebbe tenere unito il partito?
Credo sia un errore tattico come l’aver tenuto assieme il Plp che non si sarebbe mai riconciliato con la leadership. Lo dico da un anno dopo aver avuto contatti costanti con membri influenti del suo team. Hanno assai sottostimato quanto irreconciliabile fosse la spaccatura nel partito giacché Corbyn stesso e la sua cerchia sono rimasti del tutto ai margini di quell’ambiente, vivono nel loro mondo di sinistra radicale anche perché molte assunzioni del suo staff non provenivano dal labour ma da altri gruppi alla sua sinistra, compreso il Swp.

Il tanto denunciato entrismo trotzkista nel Labour Party degli anni ottanta?
Non c’è ne traccia a livello generale nel partito, e non credo ci sia stato sebbene abbiano chiamato gente di quel background. Di certo non volevano ordire una presa del partito dall’interno e tuttavia hanno pensato che avrebbero, attraverso delle concessioni, potuto tenere dalla parte propria la destra. Un grosso errore di giudizio tattico, davvero serio.

Cosa succederà a Corbyn?
È assai difficile che perda un’elezione del leader, anche se non si può mai dire. Visti tutti gli sforzi di mediazione di Andy Burnham e John Mcdonnell ci potrebbe essere una composizione temporanea delle differenze ma credo alla fine che una scissione sia inevitabile. Il problema fondamentale è che sono in molti a destra e a sinistra che riconoscono che il modello che abbiamo di democrazia parlamentare è del tutto inadeguata per l’autogoverno del XXI secolo. Ci vuole qualcosa di più sofisticato, coinvolgente e lungimirante. Al Plp sono convinti ideologicamente di essere l’élite professionale della politica autonomizzata. È difficile che un accordo possa sanare la spaccatura, a meno che non ci sia qualche clausola chiusa che governa qualche transizione. Lo diceva recentemente Paul Mason, e io sono d’accordo: il Plp è il più grosso ostacolo sulla strada di un progresso politico in questo paese anche da un punto di vista di debole social democrazia, non bennista militante. E finché non li sostituiamo con almeno un centinaio che abbiano un background politico differente non cambierà nulla.