«Ragionevolmente chiudiamo le riforme in 15 giorni da quando si comincia a votare, e dal giorno dopo siamo pronti a discutere di legge elettorale»: parola di Matteo Renzi, dopo l’incontro con i pentastellati, ed è evidente che il premier ha preso atto di quanto rallentata sia ormai la sua tabella di marcia. L’obiettivo, ora, è evitare il rischio peggiore, quello di arrivare alla pausa estiva fissata dall’8 agosto con le riforme ancora in ballo anche in una sola camera.

Non è un compito facile, e l’esito è tutt’altro che certo. Ieri, nella conferenza dei capigruppo, il governo, spalleggiato da Pd, Ncd e Fi, ha forzato la mano stravolgendo il calendario che aveva imposto appena una settimana fa. Per farlo, la maggioranza si è addirittura inventata una sorta di assurdo ostruzionismo contro se stessa. Pochi giorni fa, infatti, il governo aveva chiesto alle opposizioni di ritirare gli emendamenti al decreto cultura, prossimo alla scadenza, per impedirne la decadenza. Le opposizioni lo hanno fatto, la maggioranza no. Ha mantenuto i propri emendamenti per impedire che il decreto fosse pronto per l’aula lunedì mattina. Così, pur mettendo il decreto a rischio, lunedì mattina verrà esaurita la discussione generale sulle riforme. Nella tabella di marcia renziana, il pomeriggio si inizierebbe a votare gli emendamenti, per concludere con l’approvazione entro mercoledì sera.

È un miraggio. Gli emendamenti dovranno infatti essere illustrati, e non basteranno certo le poche ore a disposizione mercoledì pomeriggio. Tanto più che la proposta, per la verità assurda, del capogruppo Pd Zanda, che voleva procedere 24 ore su 24 è stata ovviamente respinta. Ma già giovedì arriverà nell’aula di palazzo Madama il decreto competitività e a quel punto il cambio di agenda sarà inevitabile. Poi sarà la volta del decreto sulla Pubblica amministrazione, e tenendo conto dell’altissimo numero di emendamenti la minaccia di dover arrivare a settembre si profila concretissima.

La maggioranza, per ora, non ha osato chiedere un contingentamento dei tempi che, in materia costituzionale, sarebbe più che irrituale, inaudito. Il presidente Grasso è contrario, anche perché significherebbe arrivare a un durissimo scontro frontale con tutte le opposizioni, inclusa una Lega che ha ormai preso le distanze dalla riforma come più non si potrebbe.

Renzi teme lo spettro del rinvio a settembre per due diversi motivi. Il primo è puramente d’immagine. Dopo aver sbandierato a più riprese la sua celerità e dopo aver fissato una sfilza di scadenze puntualmente disattese, l’effetto in termini di immagine sarebbe certo negativo, ma probabilmente non disastroso.

Più seria la seconda paura, quella di un ripensamento di Berlusconi. I ribelli di Fi, per ora, non sembrano affatto domati. Quando ieri la capogruppo di Sel De Petris ha chiesto di mettere ai voti il nuovo calendario, proponendo di lasciare in testa all’agenda il decreto cultura, i dissidenti del Pd hanno votato a favore del governo, quelli di Fi hanno votato con Sel, Lega e M5S.

Ma anche molti di quelli che, nel partito azzurro, si dichiarano pronti a ingoiare il diktat del capo, puntano invece ad allungare i tempi proprio perché convinti che di qui a settembre le cose ad Arcore potrebbero cambiare. Oggi stesso dovrebbe arrivare la sentenza Ruby. L’eventuale conferma della condanna modificherebbe di molto gli umori di Berlusconi, e smentirebbe le assicurazioni fatte balenare da Verdini.
Renzi lo sa. Per questo cerca ancora di correre. Ma per questo, anche, civetta come ha fatto ieri con il M5S lasciando aperto uno spiraglio alle modifiche dell’Italicum chieste da Di Maio.

Per Fi quelle modifiche sarebbero esiziali, e Renzi ci tiene a far sapere a Berlusconi che una retromarcia sul senato provocherebbe una rappresaglia modello Gaza sul fronte della legge elettorale. Ma in caso di condanna, tenere a freno i senatori azzurri sugli emendamenti, diventerà difficile. E se alcuni di quei voti saranno segreti, del tutto impossibile.