Nel 1948 un decreto del governo De Gasperi vietò l’uso in pubblico di uniformi e fazzoletti partigiani per proibire celebrazioni all’aperto della Liberazione. Luigi Longo, parlando a Milano in occasione del 25 aprile di quell’anno, denunciò «la pretesa che la ricorrenza della Liberazione fosse ricordata in locali chiusi a porte chiuse come si ordina per gli spettacoli immorali». Nello stesso giorno il corteo partigiano a Milano venne attaccato dalla polizia con un bilancio di un morto e venti feriti. Erano gli anni duri della Guerra Fredda, la Resistenza in Italia era «ospite scomodo» della divisione bipolare e la stessa Costituzione fu definita nel 1950 «una trappola per la libertà del popolo italiano» dal ministro dell’Interno Mario Scelba.

Nel 2020 l’anniversario della Liberazione non potrà essere celebrato nelle piazze ma per ben altri motivi e in altro contesto. Il divieto di assembramenti dovuto alla crisi sanitaria impedirà le manifestazioni in tutte le città del Paese e tuttavia l’Anpi ha organizzato mobilitazioni nelle case (con canti partigiani) e nella rete (con interventi e conferenze sulla Resistenza). Al di là delle forme, il rapporto tra la crisi che attraversa la nostra società ed il 75° anniversario della Liberazione evidenzia alcuni nodi centrali che connettono passato e presente in modo stringente.

Lo stato d’eccezione in cui viviamo richiama in modo esplicito i fattori fondanti che dalla Resistenza hanno preso corso nella nostra storia.
L’attuazione della Costituzione, che dalla lotta di Liberazione trae radice valoriale e legittimità storica, ha immesso nella società del dopoguerra elementi di progresso e giustizia sociale il cui valore, dopo anni di de-costituzionalizzazione della vita pubblica sul piano economico-sociale e politico-culturale, oggi cogliamo nella sua portata generale di fronte ad una crisi nuova e priva di contorni definiti.

«La libertà è come l’aria – insegna Piero Calamandrei – ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare». Così, quasi d’improvviso, tre pilastri del lascito costituente riemergono nella coscienza collettiva in questo nostro nuovo stato di necessità. La salute, che l’articolo 32 indica come diritto fondamentale dell’individuo; il lavoro, la cui centralità garantisce l’intero sistema dei servizi essenziali e che rappresenta il carattere fondante della Repubblica fin dagli articoli 1 e 3; l’istruzione che, aperta a tutti, obbligatoria e gratuita, oggi è stravolta nella sua sostanza dalla disuguaglianza di accesso ai mezzi digitali e dalla frammentazione sociale che la mancata frequentazione delle aule determina per studenti e famiglie.

Nel biennio 1968-69 l’istruzione pubblica, l’istituzione della scuola materna e l’accesso libero all’università avviarono il lento processo di applicazione del dettato costituzionale, mentre nel 1970 con lo Statuto dei Lavoratori (seguito al più grande ciclo di lotte operaie della storia repubblicana guidato, tra gli altri, dal partigiano azionista e segretario generale della Fiom, Bruno Trentin) «La Costituzione entrò in fabbrica»; nel 1978 la partigiana Tina Anselmi promosse da ministra del governo di «solidarietà democratica» (sostenuto anche dal Pci) il Servizio Sanitario Nazionale come attuazione della nostra Carta.

Da queste eredità sarà necessario ripartire in luogo di stati d’eccezione (che si reggono su una dualità divergente e assestante, in cui decine di milioni di persone sono obbligate a rimanere a casa e altre decine sono obbligate a recarsi a lavoro); di nuove forme di controllo sociale; di torsioni democratiche che hanno già fatto vittime i popoli di Ungheria e Slovenia. Viene spesso evocato il parallelo tra la crisi del Covid-19 e la guerra. Nulla c’entra l’una con l’altra ma si può trarre spunto da tale sproposito per segnalare un elemento fondamentale.

La ricostruzione del dopoguerra ebbe costi sociali durissimi per le classi popolari e lavoratrici. L’esito di questa crisi rischia di ripetere quello schema e solo con più Costituzione si potrà uscirne in modo differente. Per questo è importante chiarire che tutto andrà bene solo se andrà bene per tutti. È questo il messaggio che arriva dal 25 aprile 1945.