Oggi l’amministrazione Biden e la magistratura americana dovrebbero, se il termine fissato viene rispettato, decidere come muoversi con quei 7 miliardi di dollari della Banca centrale afgana “congelati” nelle casse della Federal Reserve dove si trovavano il 15 agosto. Una scelta politica ma anche giuridica perché 150 familiari delle vittime dell’11 settembre hanno fatto ricorso chiedendo che parte di quei soldi rifonda la loro sofferenza. Non sono gli unici in ballo: altri 2 miliardi e mezzo si trovano congelati in Europa e al momento nessuno li ha reclamati. Poi ci sono i 5 miliardi che l’Onu ha chiesto per aiutare quegli oltre venti milioni di afgani in seria difficoltà. Tra cui, ha reiterato l’Unicef, un milione di bambini che rischiano di non passare l’inverno. I due fronti vanno distinti.

La partita umanitaria si gioca in queste ore anche a Ginevra, dove una delegazione talebana, su invito della Ong elvetica Appel de Genève, ha avuto colloqui ad alto livello proprio per snellire le pratiche che, benché già ufficialmente sollevate da sanzioni, ancora impediscono un flusso di denaro cospicuo che possa pagare stipendi e beni di prima emergenza. Benché il governo svizzero, come quello norvegese giorni fa (e ieri Londra che ha mandato a Kabul un inviato), non si siano stancati di sottolineare che non si tratta di un riconoscimento del regime, i Talebani stanno facendo una vera e propria offensiva diplomatica in prima persona. Forse non si fidano troppo di pachistani, russi e cinesi. Che parlano ma non sganciano.

Sulla partita umanitaria non ci dovrebbero essere né ma né se, ma i governi restano abbastanza reticenti nei finanziamenti umanitari di cui il Paese ha enorme necessità. Traccheggiano, prendono tempo. E sulla partita dei fondi congelati stanno zitti.
Nei corridoi si sostiene che il rilascio di quei soldi vada negoziato a fronte di un impegno dei Talebani che dia serie garanzie. Ma senza quei soldi è anche difficile avviare la macchina che possa aprire la strada. Giusto garantire i corsi anche alle donne, come l’esecutivo ha promesso per marzo: ma come aprire le scuole senza soldi? Senza pagare stipendi, legna o kerosene per le stufe e magari uno straccio di mensa? Come garantire che gli ospedali funzionino e la macchina pubblica rilasci i documenti necessari (per esempio per lasciare il Paese) se non si pagano salari, non si comprano medicine, anestetici, vaccini?

Naturalmente lo scongelamento dei fondi potrebbe anche avvenire a fronte di una contropartita: che fine hanno fatto Zahra Mohammadi, Mursal Ayar, Tamana Paryani e Parwana Ibrahimkhil, solo per citare le ultime quattro attiviste scomparse?

Ma se una parte del rilascio dei fondi si può negoziare (ammesso che ci sia qualcuno per farlo visto che gli americani non hanno un’ambasciata e il promesso ufficio Ue che doveva aprire a Kabul è ancora nel mondo dei chissà), continuare a tener congelato il circolante necessario a non far collassare il Paese è un’altra faccenda. Assume i connotati di una vendetta politica contro chi ha vinto la guerra, prezzo che però sta pagando soprattutto chi quella guerra l’ha solo e sempre subita: la popolazione civile. A metà gennaio l’Editoral board del New York Times ha scritto un editoriale dal titolo: Lasciate che gli afgani innocenti abbiano i loro soldi mentre Larry Elliott, opinionista del Guardian, ha definito questo atteggiamento vendicativo un crimine contro l’umanità. Se non bastano le opinioni sui giornali, si può leggere la richiesta di scongelamento lanciata dal segretario dell’Onu Guterres, da 46 deputati del Congresso Usa o dall’ex ministro della Difesa britannico David Richards che si è spinto a consigliare di riconoscere il regime talebano.

Ma il silenzio è assordante. Anche in Italia, dove si aggiunge la promessa di corridoi umanitari rimasta una nebulosa, con decine di famiglie che si sono in qualche modo accampate a Islamabad nella speranza di ricevere un visto per l’Europa che ha ben sigillate le sue frontiere. Fa eccezione la Germania, l’unico Paese al quale si può fare domanda seguendo una procedura che le autorità di Berlino hanno pubblicato sul sito del ministero degli Esteri.