«Mi mancava la piazza. Mi mancava quel pezzo nella vita. Quando è iniziata sono partito subito». Il 25 gennaio 2011 Ibrahim era in Italia. Arrestato nel 2008, una volta uscito di carcere aveva lasciato l’Egitto per prendere la via dell’esilio volontario.

Ma alla notizia della caduta di Mubarak ha deciso che era arrivato il momento di tornare e vivere in prima persona la realtà di un Egitto in pieno fermento rivoluzionario. 34 anni, neo-papà, una laurea in ingegneria meccanica, oggi educatore in un centro per rifugiati, Ibrahim Heggi vive a Milano ed è portavoce del movimento 6 Aprile.

Nel 2011 l’organizzazione giovanile del 6 Aprile è stata tra i principali promotori della mobilitazione del 25 gennaio. Allora nessuno, compresi gli organizzatori, avrebbe scommesso che in piazza sarebbero scese più di qualche centinaio di persone. E invece sono stati milioni, in tutto l’Egitto, con epicentro a Tahrir. Una piazza in cui nulla era impossibile, come recita una famosa canzone di quel periodo. Ma «non bisogna cadere nella trappola della nostalgia della piazza« avverte Ibrahim rivolto a chi oggi tende a idealizzare quei momenti.

«Oggi quel movimento è stato schiacciato. Ma non significa che siamo tornati al 24 gennaio 2011». A chi dice che la «primavera» ha ormai lasciato il posto a un inverno senza speranza, gli attivisti rispondono decisi: «Il 25 gennaio abbiamo dato inizio a una nuova fase». Dei passi avanti sono stati fatti e bisogna riconoscerli. «Abbiamo ottenuto dei risultati. Qualcosa di molto bello. E di questo siamo orgogliosi».

Nonostante oggi la situazione sia persino peggiore di quando c’era Mubarak. Della rivoluzione resta l’idea, restano i valori che l’hanno guidata. Ma soprattutto restano le preziose lezioni che ha lasciato a chi continua a portarla avanti nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nei tribunali, o dall’esilio.

Gli attivisti, e tutti quelli che in diversi modi hanno attraversato gli ultimi sette anni di vita politica egiziana, hanno dovuto fare i conti prima con il percorso tormentato di una «transizione» mai compiuta e poi con la risacca di una spietata controrivoluzione. E inevitabilmente riflettere sugli errori di calcolo. «Oggi conosciamo meglio il nostro nemico, il regime, sappiamo com’è fatto lo stato» ci spiega Taher Mokhtar, giovane medico e attivista dei Socialisti Rivoluzionari, che negli ultimi anni si è impegnato per il diritto alla salute in carcere. «La cosa più importante per me è aver capito che la rivoluzione è un processo, non un momento» continua Taher, che da circa un anno vive in Francia. «Prima, insieme a tanti altri, pensavo che sarebbe bastato liberarci di Mubarak per vincere».

Ma soprattutto la rivoluzione è stata uno stimolo a riflettere sulle proprie capacità, debolezze, e strategie. «Un’altra cosa che abbiamo imparato« continua Taher, «è l’importanza di essere organizzati. Quando è iniziata, c’era pochissima organizzazione. Eravamo uniti contro Mubarak, uniti dagli slogan per il pane, la libertà, la giustizia sociale, ma non avevamo le idee chiare su cosa fosse quella giustizia sociale. Non avevamo un programma per trasformare la realtà e portare a compimento la rivoluzione».

E il dibattito continua, e inevitabilmente arriva a toccare l’oggi. La situazione socio-economica attuale è così grave da «mettere a rischio la vita stessa delle persone» secondo Taher. E infatti nonostante la brutale repressione, il regime non è riuscito finora a mettere a tacere del tutto scioperi e lotte sociali. I salari ormai da anni non tengono più il passo con un’inflazione che galoppa a due cifre e il governo continua a tagliare la spesa sociale in ossequio alle direttive del Fondo Monetario Internazionale.

Soprattutto nei grandi centri industriali i lavoratori hanno dato prova di poter portare avanti proteste per settimane e ottenere risultati concreti anche sotto il regime di al-Sisi. È la «piccola battaglia» (come la definisce Ibrahim) che si combatte tutti i giorni in ogni parte del paese. «Questa è stata un’altra importante lezione della rivoluzione» spiega Taher: «Prima molti attivisti non erano consapevoli dell’importanza delle lotte sociali e di creare legami con i lavoratori». Il malessere sociale è stato uno dei fattori principali della rivoluzione del 2011.

«Non possiamo dimenticare quello che è successo a Mahalla nel 2008, e il ruolo fondamentale che hanno avuto gli scioperi dei lavoratori durante e dopo la rivoluzione». La rivolta del 6 aprile 2008 a Mahalla al-Kubra (da cui prende il nome il movimento 6 Aprile) è stata «una piccola prova del 25 gennaio 2011» ricorda Ibrahim.

In quell’occasione la chiamata allo sciopero degli operai del tessile nella città del Delta era stata raccolta e amplificata dagli attivisti scatenando la reazione paranoica del regime. Mahalla fu teatro di una sommossa popolare senza precedenti nell’epoca di Mubarak, un’anticipazione e un esempio per tutto il paese. «Le proteste sociali continueranno. Ma stavolta se ci sarà una rivolta, rischia di essere un bagno di sangue« è il timore di Ibrahim.

«Saranno le persone che hanno fame, le persone che soffrono a scendere in piazza». Intanto, l’avvicinarsi delle presidenziali riapre anche le discussioni sull’opportunità di prendere parte o meno al processo elettorale.

La candidatura di sinistra dell’avvocato Khaled Ali ha suscitato entusiasmi e perplessità e acceso gli animi tra chi sostiene la linea dura del boicottaggio per non dare al regime una legittimità democratica e chi invece crede che anche questa occasione vada sfruttata. «Non per vincere, cosa che non succederà» dice Ibrahim, ma per «aprire un piccolo spazio, smuovere la scena politica«. Taher invece prende le distanze: «All’inizio ero favorevole. Ma ora i tempi sono troppo stretti per portare avanti una battaglia, costruire un programma, fare una buona campagna.

Rischia di ridursi tutto a un lavoro burocratico di raccolta firme». Per Mahienour el-Massry, che appena uscita dal carcere ha annunciato su Facebook il suo appoggio alla candidatura dell’amico e collega Khaled Ali, la campagna elettorale avrà un senso se diventerà occasione per «creare un discorso alternativo, per tentare di mobilitare la gente, trasmettere le nostre idee, costruire strumenti», soprattutto in vista del dopo-elezioni.

«È anche un test di noi stessi» chiosa Ibrahim, «per capire se riusciamo a fare una differenza in qualche modo, capire quanti siamo. Come tutti i passi che abbiamo fatto dal 2011 a oggi, qualsiasi cosa nel bene e nel male è stata una lezione. Se non riusciamo pazienza, cercheremo un altro modo». Insomma, l’eredità di quel 25 gennaio è molto più di un ricordo, di una storia da raccontare.

Resta una forza viva che continua ad animare le lotte e i progetti di tanti egiziani. «Oggi sappiamo cosa fare quando ci sarà la prossima rivoluzione» dice Taher. Dando per scontato che non finisce qui.