Per la prima volta, oggi 22 novembre, di fronte alla Camera dei deputati manifestano i Consigli nazionali della Federazione della stampa e dell’Ordine dei giornalisti. Insieme. È un buon inizio, un pezzo di una necessaria mobilitazione generale, a fronte degli errori o dell’inerzia del governo sulle ferite dell’informazione.

Infatti, mentre la legislatura è ai titoli di coda, rimangono irrisolte numerose scene della partitura drammatica in corso.

L’elenco è in difetto: l’annunciata normativa sulla diffamazione che avrebbe dovuto eliminare il carcere e mettere un serio freno alle querele «temerarie» è ferma (il gioco cinico va avanti da quattro mandati parlamentari); il decreto sulle intercettazioni del ministro Orlando non garantisce la libertà di cronaca, disponendosi la pubblicazione solo delle trascrizioni «essenziali» (filologi di tutto il mondo battete un colpo) e prevedendo persino la detenzione per i rei; la legge di bilancio nulla contiene sul precariato, vale a dire circa il 65% del settore; la legge 233 del 2012 («equo compenso»), faticosamente strappata all’esecutivo Monti, è incredibilmente inapplicata avvolta com’è nei meandri della giustizia amministrativa e negli esercizi interpretativi.

Nel frattempo, però, gli editori sono trattati con i guanti, visto che negli ultimi anni sono piovuti da Palazzo Chigi 2-300 milioni di euro di sovvenzioni, cui si è aggiunto nel recente decreto fiscale il credito di imposta sugli investimenti pubblicitari a carico del fondo per il pluralismo.

È assurdo che simili cospicui finanziamenti non abbiano prodotto risultati sull’occupazione, facilitando al contrario prepensionamenti e disoccupazione.
Intere generazioni spedite a casa, senza tante storie.

La questione ha finalmente toccato anche la Rai, dopo che il sindacato dei giornalisti Usigrai e la Fnsi hanno portato l’argomento nella commissione parlamentare di vigilanza. Tra l’altro, il nuovo contratto di servizio non può non avere al suo interno una direttiva precisa: l’entità del canone di abbonamento va rapportato al numero dei contratti a tempo indeterminato.

Il diritto a informare e a essere informati non è messo in causa solo da norme o scelte economiche. Incombe da tempo un vero e proprio attacco vandalico ai corpi dei giornalisti: minacce, percosse, persino omicidi.

Da ultimo, ha ricevuto un ennesimo «avvertimento» Paolo Borrometi, appena diventato – tra l’altro- presidente dell’associazione Articolo21. E nei giorni passati si sono susseguiti il pestaggio a Ostia di Daniele Piervincenzi della rubrica di Raidue «Nemo», le intimidazioni ai danni di un fotoreporter di Ponticelli o della cronista Marilena Natale di Caserta.

La lista è infinita e segna una salto di qualità. Si è creato un clima di vendetta e di odio, figlio della crisi democratica, che prevede un esautoramento progressivo del «quarto potere», perché la criminalità organizzata punta alle commesse e agli appalti pubblici. E la trasparenza è un impiccio, mentre devono prevalere il segreto e l’opacità.

Purtroppo, la sensibilità politica è scarsa e procede per fiammate occasionali presto rimosse o dimenticate. In tal modo la traversata verso l’era digitale rischia di diventare un’ecatombe.

Chissà se agli impegnativi appelli delle alte autorità della Repubblica, dal presidente Mattarella a Pietro Grasso e a Laura Boldrini seguiranno atti concreti.

Che vengano finalmente indetti gli Stati generali dell’informazione e, per l’intanto, si concordi un emendamento sul precariato nella citata legge di bilancio, finanziato con l’agognata «digital tax».