Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha scelto la tempistica peggiore: a 24 ore dall’apertura del processo in Italia a quattro membri dell’Nsa, la National Security egiziana, accusati dalla Procura di Roma del rapimento e l’omicidio del ricercatore Giulio Regeni, lui era a Budapest, ospite del gruppo Visegrad, a dire all’Europa che sui diritti umani non accetta lezioni.

«LA NOSTRA è una leadership che rispetta e ama il suo popolo e si adopera per il progresso, non abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che i nostri standard sui diritti umani sono carenti». Ha poi provato a dare lui lezione ai suoi ospiti e a Bruxelles ricordando che i diritti dei migranti in fuga dall’Africa sono importanti quanto la libertà d’espressione.

Come succede ormai da anni, insomma, al-Sisi sa di poter parlare senza timore di essere smentito né ripudiato. Il processo che si apre oggi nell’aula bunker di Rebibbia ne è la prova.

Sul banco degli imputati non ci sarà nessuno: il regime del Cairo non ha mai risposto alla richiesta di Piazzale Clodio di elezione del domicilio, per poter recapitare loro le comunicazioni in merito.

Proprio di questo si discuterà oggi davanti alla terza Corte d’Assise: l’assenza del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif.

AI GIUDICI SPETTERÀ stabilire se tale assenza è volontaria oppure se non siano a conoscenza del procedimento. Difficile che non lo sappiano, impossibile. Dalla decisione dipenderà però lo svolgimento o meno del procedimento. In caso si accerti che l’assenza è volontaria, si potrà procedere in contumacia per sequestro pluriaggravato e, nel caso di un imputato (Sharif), per concorso in lesioni personali e concorso in omicidio aggravato.

INTANTO IERI, ALLA VIGILIA della prima udienza il silenzio della politica è stato rotto solo dal presidente della Camera Fico e dalla Presidenza del Consiglio che ha annunciato di volersi costituire parte civile contro i quattro imputati, ingranaggi rodati e apicali del sistema di repressione e controllo sociale ereditato da al-Sisi e condotto a livelli ancora più soffocanti. La richiesta alla corte potrebbe essere già presentata oggi.

Chi di certo sarà in aula è la famiglia Regeni. I genitori di Giulio, Paola e Claudio, hanno già reso note le loro intenzioni: chiamare a testimoniare i presidenti del Consiglio dei ministri in carica dal giorno del rapimento, il 25 gennaio 2016, a oggi, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte e l’attuale, Mario Draghi. Con loro saranno chiamati anche i vari ministri degli Esteri

Il rinvio a giudizio dei quattro risale al 24 maggio scorso, con il gup Balestrieri che fissava anche la data di inizio del processo. L’ultimo atto del lungo e solitario percorso compiuto dalla Procura di Roma, dal team del procuratore capo Michele Prestipino e del sostituto procuratore Sergio Colaiocco, che lo scorso dicembre di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni annunciavano la chiusura delle indagini preliminari ricostruendo i nove giorni di orrore passati da Giulio nelle mani dei suoi aguzzini.

PER QUESTO SUL BANCO degli imputati non ci saranno solo i presunti esecutori materiali del sequestro, delle brutali torture subite dal ricercatore e del suo omicidio.

Ci sarà il governo egiziano che in questi anni – insabbiando e negando cooperazione giudiziaria all’Italia – ha fatto quadrato intorno ai suoi uomini, consapevole che perderne uno (o sacrificarlo) significherebbe mettere in dubbio la tenuta di un regime che, senza una base politica di riferimento, ha nelle forze armate e nei servizi segreti la sua sola fonte di legittimità.

E, non tanto indirettamente, c’è anche il rifiuto del governo italiano a interrompere i rapporti politici, economici e militari con Il Cairo di al-Sisi.