Era il 1950 quando, con toni apocalittici, il critico e filologo tedesco Gerhard Nebel scriveva del turismo moderno come «un grande movimento nichilistico, una delle grandi malattie epidemiche dell’Occidente. La sua malefica efficacia – scriveva – è paragonabile a quella delle grandi epidemie orientali; è anzi più sottile e infida». Hans Magnus Enzensberger lo cita come esempio di «debolezza mentale che rasenta l’idiozia», ma nell’estate del coronavirus che sta per finire, in cui turismo e epidemia sembrano essere nemici gemelli, queste frasi possono tornare a esibire il loro fascino sinistro. Sono frasi tipiche dell’aristocratica condanna del turismo di massa, della distinzione tra «noi» e «loro», considerazioni che si ritrovano, per esempio, nella Storia delle vacanze dell’etnologo Orvar Lofgren.

Il Grand Tour, sia sulle Alpi sia lungo le vestigia di Roma, è il prototipo di un’esperienza nata per gli interessi artistici o scientifici di pochi singoli, gli stessi che potevano permettersi la dimora di campagna, e la divisione del tempo domestico tra estate e inverno. Vacanze, villeggiatura, turismo: gli storici, gli antropologi e i sociologi hanno cominciato a studiarle da decenni, e quella che raccontano è anche una storia di autodefinizione delle classi sociali.

In fondo la storia delle vacanze italiane è soprattutto, almeno fino agli anni Novanta, la storia di un paese più oggetto che soggetto di sguardo, in cui la vacanza non si identifica tanto con la scoperta dell’altro e non contempla tanto l’esotismo quanto il viaggio al proprio interno. In principio era la villeggiatura: già il termine suona aristocratico, alto-borghese, codificato in termini di tempi e di generi sessuali. Era già tutto in Goldoni, con i suoi borghesi desiderosi di mostrarsi agiati nei luoghi di villeggiatura frequentati dai nobili: «se non va in campagna, ella crepa prima che termini questo mese». Un secolo e mezzo dopo, l’attacco del libro Cuore suonava così: «Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna!» (E la data ci ricorda come l’anno scolastico cominciasse molto in là: 17 ottobre).

Solo con la belle époque, tuttavia, la nostra borghesia intellettuale comincia a cantare i propri, in realtà abbastanza frugali, paradisi estivi. La storia delle nostre vacanze, la storia dell’estate italiana, ha un centro, al tempo stesso reale e immaginario: il miracolo economico, quando accanto alla prima percezione dei giovani in quanto categoria dotata di comportamenti, consumi, stili di vita autonomi, veniva inaugurata una Prima Estate, madre di tutte le estati a venire. La ricostruzione di quegli anni ci riporta a una generazione di ventenni ancora vestiti con giacche e cravatte, che lentamente si girano e scoprono alle proprie spalle il mare: nessuno lo aveva ancora visto così, in quella prospettiva vacanziera.

A evidenziare il mutamento funzionano meglio certi film distribuiti in diversi decenni. Nel 1933, Treno popolare di Raffaello Matarazzo raccontava tante piccole storie di piccola borghesia durante una gita domenicale a Orvieto, organizzata appunto coi treni popolari del fascismo, esempio di modernizzazione dall’alto del tempo libero. Nel 1950 Domenica d’agosto di Emmer è il trionfo di un popolo, ancora una piccola borghesia vista con affetto e indulgenza, in una Ostia di fraschette; sullo sfondo, Roma svuotata con il solo povero vigile Mastroianni (doppiato da Sordi). I due cronotopi del cinema italiano dell’epoca, l’automobile e la spiaggia, tornano nelle immagini di una Italia che si attraversa ormai in fretta, per centinaia di chilometri, mostrando spiagge popolatissime di gente di ogni classe, e giovani al ritmo dei juke box.

Nel 1959, il più illustre dei nostri antimoderni, Pier Paolo Pasolini sfrecciava con la sua 1100 lungo le coste italiane, dalla Liguria giù alla Sicilia e ancora su lungo l’Adriatico fino alla sua regione d’origine, il Friuli, per poi raccontare il proprio viaggio in un reportage per la rivista «Successo». Tappa finale, un trauma storico-geografico: «ora sono a casa mia, penso. (…) Invece è il pezzo più inaspettato del mio viaggio: non solo non riconosco più niente (e non sono passati che otto, nove anni), ma sono addirittura in terra straniera».

Il viaggio nello spazio si traduce in un viaggio nel tempo, e alla fine dell’estate, dopo il periplo della penisola, Pasolini sembra riemerso, sulle coste friulane, a un «feroce mondo futuro», come scriverà nei versi in morte di Marilyn Monroe: è l’agosto del ’62, già l’inizio della fine delle illusioni. Mentre Gassman, nel Sorpasso, attraversa la costa tirrenica con la sua Aurelia, pagine fondamentali mettono a fuoco lo spirito delle vacanze: Una teoria del turismo, in Questioni di dettaglio di Hans Magnus Enzesberger e i passaggi di Edgar Morin sull’industria del tempo libero in Lo spirito del tempo. È una storia di lungo periodo, e non solo italiana, legata all’ascesa delle classi medie, alle conquiste sindacali, all’aumento dei giorni di ferie. Ma in Italia tutto sembra subire una accelerazione e rendersi più visibile: la vacanza è un vuoto, una sospensione, un alternarsi di frenesia e malinconia, e in un paese tutto fatto di coste, il mare, ora frequentato come mai prima, sembra rivelare la penisola a se stessa. Ogni nostra estate, da allora, è stata in fondo un tentativo di sognare gli anni del boom, a volte di sognarli al quadrato, come nel sogno stupido e esclusivo degli anni Ottanta, che dei Sessanta credevano di essere la reincarnazione. Non realtà storiche ma luoghi della mente transitati per i media, magazzini dell’immaginario, archetipi di tutti i piaceri.

Il bagno di virtualità di questi mesi ci ha forse messo sotto gli occhi con particolare durezza l’artificialità di questi sogni, alla luce dei quali assume un senso nuovo la profezia di Fruttero e Lucentini, alla fine della loro Breve storia delle vacanze: «Come saranno nel futuro le nostre vacanze? L’ipotesi a noi più cara è l’immobilità. (…) Con gli stessi apparati i benzinai serviranno sulle autostrade viaggiatori virtuali, gli albergatori ospiteranno comitive virtuali, i bagnini salveranno bambini virtuali, i pizzaioli nutriranno le tavolate di divoratori virtuali, e per tutta l’estate gireranno immense somme di denaro virtuale. In conclusione ognuno tirerà giù un bilancio virtuale e sarà soddisfatto».