In pochi altri momenti Astrattismo e Realismo hanno visto intrecciate le loro storie come nella Germania del decennio che va dai primi anni ’20 all’ascesa del Nazismo nel 1933. Mentre il «puramente artistico» delle avanguardie va esaurendo il suo radicale impulso iniziale, l’«oggettivo» s’impone, nella società tedesca del primo dopoguerra, con temi e modi del tutto originali. Diminuiscono le divergenze tra la «grande astrazione» e il «grande realismo» e mai, come negli anni travagliati della Repubblica di Weimar, la loro distanza si fa così esile. Emilio Bertonati nel suo saggio sul realismo tedesco (Il Realismo in Germania, 1967) lo fece notare con acume trascrivendo quanto Kandinsky scrisse nel 1912: «non tanto le forme astratte in sé sono importanti, quanto il loro suono interiore, la loro vita; come nel Realismo non l’oggetto stesso è importante, ma il suo suono interiore, la sua vita».

Già allora nelle «mete finali» i due poli coincidevano. Chi visita la mostra al Museo Correr di Venezia Nuova Oggettività Arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimar, 1919-1933 (fino al 30 Agosto) si accorge subito di trovarsi davanti a una pittura che ha preso solo a pretesto l’«oggettività», per quant’è disuguale nella scelta dei temi, delle forme e delle tecniche di rappresentazione, e per nulla assimilabile a un movimento o a un gruppo, come Espressionismo o Dada. L’esposizione è il frutto di un lungo lavoro di ricerca di Stephanie Barron e Sabin Eckmann del Los Angeles County Museum of Art, le quali avvalendosi di molti contributi critici di specialisti dell’arte tedesca distribuiti tra i due continenti hanno prodotto un catalogo (Prestel Verlag-24Ore Cultura) che raccoglie oggi il più avanzato punto d’indagine sulla Neue Sachlichkeit.

Nell’attraversare le cinque sezioni tematiche della mostra ci si chiede, come per primo fece più di quarant’anni fa Giovanni Testori nell’esposizione milanese Il Realismo in Germania (1971), se ci troviamo di fronte a «un’arte che ha rappresentato una realtà violata o non piuttosto di un’arte che ha violato essa stessa, e con piena coscienza, quella medesima realtà». I riferimenti dello scrittore lombardo andavano soprattutto ai soggetti della Nuova Oggettività, dannati dalla guerra o umiliati dalla povertà, verso i quali la sua attrazione era sincera.

In quella «straordinaria sfilata d’asperrime atrocità e di levigatissime orrendezze» Testori ravvisava insieme alla spietata denuncia umana, sociale e politica del potere, l’identificazione – le «sottili perversioni del piacere» – di quei pittori con l’oggetto rappresentato, convinto, alla pari degli artisti del realismo «oggettivo», che la salvezza dell’uomo passasse per la «coscienza della viltà, delle turpitudini, delle degradazioni» alle quali è sottomessa l’esistenza umana.

L’anno di nascita della Nuova Oggettività è il 1925, quando il direttore della Kunsthalle di Mannheim, Gustav Friedrich Hartlaub, invita a esporre Max Beckmann, George Grosz, Otto Dix, Alexander Kanoldt, Georg Schripf, Carl Mense, Carl Grossberg, Fritz Burmann, Xaver Fuhr. Hartlaub non sa di avere allestito una mostra «epocale», come molti decenni dopo sarebbe stata definita dalla critica (Bollé, 1988). Tuttavia l’arte della Nuova Oggettività, della quale Hartlaub rivendica la paternità – il termine Sachlichkeit era già negli scritti di Muthesius e Wölfflin – resta all’epoca circoscritta ai soli confini della Germania. Sarà grazie al coevo contributo del saggio dello storico dell’arte Franz Roh, Post-Espressionismo, Realismo Magico, se la pittura del nuovo realismo tedesco avrà un maggiore ascolto. Roh, infatti, apre la cerchia dei pittori scelti da Hartlaub includendo nella nuova tendenza Carlo Carrà, Giorgio de Chirico, André Derain fino a Max Ernst e Pablo Picasso. La mostra e il saggio, con una azione combinata, favoriscono il diffondersi della nuova tendenza, nonostante l’espandersi dei gruppi dell’astrattismo da un lato e dall’altro del permanere degli espressionisti e di artisti dell’autorità di Max Liebermann o Lovis Corinth.

Il mondo oggettivo – sachlich o magico – si esprime in forme differenti dal precedente «realismo neutrale» (Courbet): trasfigura il reale in scene stranianti e immaginifiche e con «una fascinazione delle forme geometriche e uno stile pittorico – ha scritto Christian Fuhermeister – che tende a enfatizzare la solidità e la compattezza degli oggetti». Sono gli oggetti, dipinti ma anche fotografati, che compongono ora uno spazio sospeso nel quale ogni sentimento si annulla per la solitaria bellezza dell’oggetto seriale: sia esso un bene di consumo (dai bollitori di Rudolph Dischinger alle lampadine di Hans Finsler) o un elemento della natura addomesticata (i cactus di Georg Scholz o di Fritz Burmann).

Nel 1925 il critico Adolf Wortmann scrisse: «lottiamo per la forma netta, pura, semplice. Siamo stanchi di digressioni e capricci. Vogliamo la norma perché il senso dell’essere uomini è la volontà della forma». Gli oggetti raffigurati dagli artisti «oggettivi» sono di modeste dimensioni, come uova o frutti della fotografa Aenne Biermann o voluminosi come le macchine industriali dipinte da Carl Grossberg o fotografate da Hans Finsler.

In ogni caso è la «riproducibilità tecnica» ad essere celebrata mentre l’estetica della macchina – funzionalista e antidecorativa – qualifica le relazioni umane nella società di massa. Dentro l’universo dell’industria agisce una moltitudine di esseri con le loro ricchezze e sventure. L’arte ne indaga e classifica i tratti fisici e psicologici: un processo favorito dalla fotografia, com’è in August Sander. È a lui che si deve il più esteso repertorio di tipologie sociali: Uomini del XX secolo è la sua raccolta unica di ritratti di persone e mestieri che ci trasmette lo spirito dell’epoca e il significato della tipizzazione: il tentativo di ordinare una società che l’epoca moderna ha reso ancora più complessa e contraddittoria.

Dall’altro versante della «fotografia esatta» di Sander sta la ritrattistica dipinta. In Otto Dix, il vero assume le forme taglienti della caricatura riprodotte meticolosamente con una tecnica che rimanda agli antichi maestri: esemplare il suo Ritratto dei genitori I (1921). In altri, come in Grosz, è la metafora politica che connota i personaggi, oppure come in Rudolf Schlichter, Georg Scholz o Karl Hubbuch è il grottesco che trasfigura e rende riconoscibili i tipici abitanti – prostitute, disoccupati, politici – della Großstadt. Ma è nei ritratti di Christian Schad che l’effetto straniante è più intenso, per l’ambiguità dei temi eccentrici trattati con verismo estremo, come la devianza sessuale (Autoritratto con modella, 1927).

La mostra veneziana evita la divisione in «ala sinistra» e «ala destra» come Hartlaub propose, in altre parole la distinzione tra gli artisti che «buttano fuori il vissuto al ritmo del loro tempo», e quelli che invece «cercano l’oggetto valido al di là della temporalità». È indubbio, però, che in quel variegato gruppo le differenze di stile e di orientamento politico hanno contrassegnato i termini della ricezione della Nuova Oggettività nei due regimi dittatoriali che si sono avuti in Germania dopo il 1933: il Terzo Reich fino al 1945 e dopo la Repubblica Democratica Tedesca. Nel suo saggio in catalogo, Olaf Peters chiarisce bene l’uso strumentale che si è fatto della Nuova Oggettività: se in un primo momento i nazisti la rifiutano perché espressione di uno stile «troppo freddo» e irriguardoso, basta poco perché il gruppo della «tendenza conservatrice» – i pittori Kanoldt, Radziwill, Schrimpf, il fotografo Albert Renger-Patzch – siano nel 1933 recuperati sotto il nome di Nuovo Romanticismo tedesco (Neue Deutsche Romantik).

Al contrario, gli artisti dell’«ala sinistra» – Beckmann, Dix, Grosz, Hubbuch, Schlichter, Scholz – insieme a Hartlaub, subisco ogni genere di attacchi, in quanto artisti «degenerati». Purtroppo per le posizioni ideologiche della storiografia artistica della Germania dell’est, anche l’«avanguardia democratica» della Neue Sachlichkeit viene rifiutata perché formalista. Tutto ciò che non ricade nell’ortodossia del realismo socialista è, infatti, da condannare. Si sfrutta la critica sociale di artisti come Beckmann, Grosz o Dix, ma si ignorano pittori ben più schierati politicamente a sinistra come Karl Völker, Otto Nagel o Hans Gundrig.

Solo alla fine degli anni ’60, grazie alla rivista monacense Tendenzen, agli storici Wolfang Hütt e Peter Feist, ma soprattutto alla revisione parziale della mostra a Berlino Est, Realismus und Sachlichkeit (1974), la pittura postespressionista degli anni di Weimar comincia a essere considerata nelle sue ampie articolazioni stilistiche anche se ancora è gravata da pregiudizi ideologici. Sarebbero passati ancora degli anni prima che la Nuova Oggettività fosse riconosciuta, dopo i condizionamenti dei regimi dittatoriali tedeschi, «fra le tradizioni più forti e fra i modelli più persistenti nell’arte tedesca del Novecento», come ha scritto Peters. La mostra veneziana, consegnadocene un felice riscontro, si offre come un’occasione in più per comprendere l’importanza del realismo tedesco quale snodo decisivo della modernità.