Nella terza stagione di SpongeBob c’è l’episodio «La scatola dell’immaginazione» dove SpongeBob acquista l’ultimo modello di un televisore solo per giocare assieme al suo amico Patrick con lo scatolone che lo contiene. Il noioso ed invidioso Squiddi lo convince a regalargli il televisore sicuro d’averlo raggirato, ma è costretto a cambiare idea quando non riesce a guardare i programmi a causa dei rumori di battaglie spaziali e combattimenti di pirati che arrivano dalla scatola. Sospetta la presenza di qualche prodigio tecnologico ma SpongeBob gli spiega che sono lui e Patrick a creare gli scenari fantastici (coi relativi effetti sonori) grazie alla «forza dell’immaginazione».

Utilizzare in modo «impertinente» gli oggetti quotidiani per l’attività ludica è quanto insegna Antonio Di Pietro (pedagogista ludico e docente nell’Università di Firenze) nel recente libro «Giocare con niente. Esperienze autonome con oggetti e cose ’impertinenti’» (Edizioni Junior).

Giocare con sassi, pezzi di legno, mollette, pezzi di tubo, pennelli, mestoli e cucchiai, barattoli, cerchi di cartone vari, chiavi, rondelle e, tra le tante altre cose più o meno di recupero, con le scatole appunto. Può sembrare un suggerimento banale a quelli con più anni dietro le spalle, ma oggi troppo spesso si preferisce mettere anche i bambini più piccoli davanti ad uno schermo, che sembra magicamente incantarli lasciando liberi gli adulti d’occuparsi d’altro, o si teme che oggetti di recupero non siano per loro abbastanza sicuri. Al contrario Di Pietro mostra, soprattutto ad educatori e insegnanti del nido e della scuola d’infanzia, come una proposta non casuale ma accuratamente motivata a raggruppare oggetti che inneschino specifiche competenze (sonore, tattili, visive per il riconoscimento di forme, colori, materiali, ecc.), possa portare a promuovere lo sviluppo fisico, cognitivo ed emotivo dei bambini nel contempo ricavandone osservazioni preziose. Senza tuttavia dimenticare i genitori, troppo spesso preoccupati di fornire il più recente giocattolo proposto dal mercato, senza considerare che il gioco/giocattolo «preconfezionato»non ha il pregio di promuovere la curiosità e la creatività come il trovare utilizzi per le cose che Di Pietro definisce «impertinenti» in quanto non appartenenti ai canoni socialmente riconosciuti.

Questa modalità di gioco ricorda l’approccio di Bernard De Koven, «facilitatore» e «filosofo» ludico, che nell’ultimo libro pubblicato prima della sua scomparsa nel 2018, «A Playful Path» (ETC Press, 2013), conclude la sua ricerca del «gioco ben giocato» (come recita il titolo del suo testo più importante: «The Well-Played Game», 1978 e MIT Press 2013) accantonando il «game»(il gioco vero e proprio fatto di regole e convenzioni) in favore del «play» e soprattutto del «playful»: il giocare, l’attitudine giocosa che coinvolga potenzialmente ogni azione e momento della vita. Utilizzare un oggetto in modo insolito e ’impertinente’, inventarsi regole per camminare per strada o per incrociare i passanti, ecc.: tutte azioni che un bambino compie quasi istintivamente e per le quali un adulto si deve invece prima svestire dell’armatura di abitudini e convenzioni.

Ecco allora che le proposte e le suggestioni di «Giocare con niente», oltre ad essere utili per una scuola d’infanzia alla ricerca di soluzioni per l’«outdoor education» post-Covid19, possono diventare anche una sorta di viatico per spingere donne e uomini «comuni» a cercare, tramite la scoperta di nuovi usi e significati nelle cose che ci circondano, un «percorso giocoso» che ci consenta di essere in sintonia con noi stessi, con gli altri e con l’ambiente.