Il 23 agosto del 1917, il silenzio lo potevi ascoltare tanto era forte. Nessun operaio alle macchine dei padiglioni Fucine, Montaggio, Torneria, gigantesche cattedrali dell’industria. Nessun operaio a camminare in mezzo alle navate lunghe duecento metri. Anche qui, alle OGR, Officine Grandi Riparazioni di Torino, la rivolta del pane aveva portato nelle piazze dei quartieri di Borgo San Paolo e Barriera di Milano migliaia di persone esasperate dalla fame. Barricate, cortei, negozi e magazzini delle caserme svuotati per cercare qualcosa da mangiare, e il giorno dopo gli scontri più duri. La gente di San Paolo e Barriera rompe l’assedio dell’esercito, cui il consiglio comunale aveva affidato il compito di ristabilire l’ordine. Ma la controffensiva dei militari, al calare del buio, lascia sulle strade sette morti e una quarantina di feriti tra i dimostranti. Duecento gli arresti. L’ondata di lotte si ferma il ventotto, le cifre finali parleranno di cinquanta vittime e di un migliaio di operai in carcere, alcune centinaia processati per direttissima. Le Nuove, le prigioni della città, sono, sembra una beffa, a pochi passi dalle OGR. Come l’immenso complesso dove si revisionano e si riparano i treni, fanno parte dell’area denominata Grandi Servizi, periferia a ovest della cinta daziaria innalzata nel 1853. La realizzazione delle Officine, centonovantamila metri quadri, era stata preceduta, appunto, dalle Nuove, costruite tra il 1862 e il 1870; dal Mattatoio, 1866; dai casotti del dazio, 1869; dal Foro Boario, 1870. Occorre un decennio, dal 1885 al 1895, per chiudere i cantieri delle OGR, e con i cantieri portare a compimento un insieme di strutture pensate guardando allo sviluppo economico della città. Lo ‘stabilimento dei treni’ è esempio concreto dell’obbiettivo di puntare, e molto, sull’industria, attraverso gli scambi di prodotti e di materie prime con l’Italia e con l’Europa. Perso il ruolo di capitale, Torino aspira a diventare protagonista della crescita del nuovo Paese. Architetture e macchinari delle OGR sono all’avanguardia, ma è la manodopera a fare la differenza. I duemila operai che lavorano sotto le volte dei padiglioni alte sedici metri, vantano un’altissima specializzazione. Sono maestri nel saldare e curvare le lamiere, riparare i motori delle locomotive, allestire gli ‘scheletri’ e gli interni delle carrozze, risolvere ogni problema e ogni guasto meccanico. A dir poco selettivi i criteri di assunzione. Dopo i colloqui preliminari viene chiesto a ciascuno di realizzare un pezzo per il quale occorre un altissimo livello di precisione. Chi non è all’altezza, è fuori. Può apparire contradditorio che operai così qualificati, una sorta di ‘aristocrazia’, abbiano partecipato in prima fila all’agosto del 1917. Non distante dalle Officine, ai primi del Novecento, erano stati impiantati altri stabilimenti: la SPA (Società Piemontese Automobili), la Autocostruzioni Chiribiri, la Lancia, l’Ansaldo, la Materferro, la SIP. L’alta concentrazione di lavoratori nella zona fa sorgere la necessità di creare nuove case, embrioni di quel Borgo San Paolo che, con il Lingotto e Mirafiori, sorti in seguito, diventerà una delle roccaforti del socialismo e del movimento operaio. Le maestranze delle OGR saranno tra i protagonisti, nel 1920, dell’occupazione e dell’autogestione delle fabbriche, e registreranno forti adesioni al Partito Comunista appena fondato da Antonio Gramsci. Bombardate più volte nel corso della Seconda Guerra Mondiale, le Officine verranno parzialmente dismesse alla fine degli anni ’70, primo segnale di una Torino che si avvia a perdere il primato industriale, e con esso la principale risorsa di vita e di vitalità. Quando, nel 1995, il Piano Regolatore approvato dal Comune decreta l’abbattimento delle OGR, a dimostrazione dello stato in cui versano, nascono infiniti e sterili progetti di recupero. Intanto gli enormi spazi vuoti diventano disperato rifugio di emarginati e migranti. L’unico intervento concreto è quello che, nel 1997, sfruttando gli edifici della Torneria e delle Fucine, realizza la Cittadella Politecnica, oggi sede centrale del Politecnico. Nel 2008 e nel 2011, un altro parziale intervento permette di ospitare alcune mostre, tra cui ‘Fare gli italiani’ per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. In un numero speciale della Rivista Museo Torino dedicato a quella mostra, lo storico dell’architettura Carlo Olmo scriveva «L’architettura conserva le tracce, più di ogni altra testimonianza umana, delle storie e degli uomini che le abitano. Le storie di una destinazione che a più di trent’anni dalla chiusura della fabbrica non è ancora definita, avendo consumato quasi tutte le possibili prospettive: quasi una scena finale invertita de La vita è sogno di Calderón de la Barca, dove Sigismondo non si è risvegliato… Sarebbe allora quasi un sogno che … dopo la mostra, le tracce di tutte queste storie non scomparissero, che il recupero, per una volta, significasse davvero una rielaborazione di una memoria inclusiva di ogni frammento di storia, che la topografia di chi utilizzerà questi luoghi… non solo conservi ma renda leggibile le vicende umane, i progetti realizzati e mancati, le conquiste e le sconfitte, gli eroi e gli uomini senza volto e forse senza nome, che hanno popolato quest’architettura». La speranza di quel sogno è stata raccolta, Sigismondo si è risvegliato.

INTERVISTA A Massimo Lapucci

TORINO Cent’anni dopo lo Sciopero del pane, la Corte Est delle Officine Grandi Riparazioni è una grande piazza dove le sculture dell’artista sudafricano William Kentridge compongono la Procession of Reparationists: sagome metalliche e nere di operai chinati sui macchinari. Dietro di loro, sembrano formare una seconda e parallela processione le grandi finestre vetrate di un edifico verde chiaro e di un fabbricato in pietra e mattoni. Non è azzardato pensare che Kentridge, progettando la sua opera, fosse all’oscuro delle rivolte d’agosto del 1917. Ma, a distanza di un secolo, i suoi operai immobili diventano duplice rimando, al lavoro e alle lotte per i diritti che hanno segnato il Novecento torinese. Se gli inserti metallici nella pavimentazione della piazza citano i binari, il design delle collinette e delle panchine il profilo di una locomotiva, il rispetto e la tutela del passato divengono realmente tangibili all’interno delle OGR. Rispetto e tutela sono le linee guida che hanno dettato i criteri di restauro. Lo sottolinea Massimo Lapucci, segretario generale della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino, cui si devono il finanziamento e la gestione del progetto, e direttore delle Officine «Occorreva capire, prima di tutto, come recuperare questa testimonianza di archeologia industriale in un’ottica di passaggio da officina dove si costruivano e si riparavano i treni, a officina dove le idee vengono generate, rigenerate e perché no ‘riparate’. Sono molti e importanti, oggi, gli elementi che hanno bisogno di una riparazione culturale. Le nuove OGR, perciò, non dovevano, non potevano essere, un luogo statico nell’accezione di un museo di questo o di quell’altro». Nel racconto di Lapucci, c’è una parola, ‘odore’, da tenere a mente non appena oltrepassato l’ingresso dell’edificio a forma di H, ventimila metri quadrati per sedici di altezza, che si completa con le palazzine degli uffici e le aree scoperte. È l’odore inconfondibile della storia. Trasuda dai mattoni dei muri e dal ferro delle colonne, galleggia nella luce delle immense finestre, impregna le volte dei soffitti. Ancora Lapucci «Mantenere l’odore, cioè la storicizzazione degli eventi, ha rappresentato una delle indicazioni fondamentali date ai progettisti. Le OGR sono state una fabbrica, hanno conosciuto l’abbandono. E nell’abbandono, utilizzate per rave party, come rifugio da tanti disperati. Lasciare le tracce di tutto questo significava testimoniare le diverse anime e le diverse vicende che qui si sono succedute». Mille giorni di cantiere e cento milioni di investimento hanno fatto delle Officine una realtà che sfugge a una definizione precisa. Arti, innovazione, socialità si spartiscono gli spazi, agendo in proprio e nel medesimo tempo dando vita a una comunità aperta, permeabile. Le Officine Nord, novemila metri quadri su duecento metri di lunghezza, ospitano nei tre ‘binari’ ovest mostre e performance visive. L’ala est, la Sala Fucine di un tempo, è destinata a concerti e spettacoli di teatro e danza che si svolgono su un palco ad altezze variabili, mentre il pubblico trova posto sulle tribune mobili a scomparsa. Odorano di storia i murales conservati su alcuni tratti delle pareti. Mai, tuttavia, con l’intensità che si avverte entrando nel Duomo, diciannove metri in verticale, il reparto dei vagoni messi in verticale per essere ‘curati’. Adesso è arena di conferenze e workshop. Entrando dal tetto e dai finestroni, il sole invade la lunga passerella delle Officine Sud e la navata centrale. Questo è il regno delle terminologie inglesi che punteggiano le attività del presente e del futuro. Citiamo quasi testualmente «Nelle due campate laterali, gli ambienti per le sale riunioni e gli uffici open space su due piani, modulari e flessibili… testimoniano la rinnovata identità del luogo: hub per la ricerca, attrattore e acceleratore delle start up innovative, polo per lo sviluppo progettuale delle industrie creative, laboratorio dedicato agli Smart Data». Prestigiosi i partner nazionali e internazionali chiamati a partecipare. Ribattezzata Snodo, la zona del Transetto, tra le due Officine, offre duemila metri quadri consacrati al cibo. Chiediamo perdono se il dettaglio che più ci ha colpito, nella notevole raffinatezza dell’insieme, sono i due giganteschi ingranaggi a ruota che muovono le porte scorrevoli delle toilette. Siamo rimasti a guardarli, ipnotizzati come bambini. Altro dettaglio di conto è il tavolo sociale: venticinque metri lineari attrezzati per sedersi l’uno accanto all’altro, mangiando hamburger e altri piatti veloci di ottima fattura. Chi per socialità intende i social, trova ad attenderlo postazioni per computer occultate nel legno. Snodi dello Snodo sono anche il bar, un ristorante più che abbordabile e uno per tasche capienti, vari angoli conversazione. Prendendo a prestito due citazioni di Lapucci, forse anche le nuove OGR aiuteranno a riparare una Torino che torna ad avvertire pungente un certo odore di decadenza. E nonostante questo, continua a vivere nel ricordo nostalgico e sfocato dei fasti olimpionici invernali.

I NUMERI

TORINO. I mille giorni di lavoro per dare nuova vita alle OGR sono iniziati nel 2013 e si sono conclusi nel 2017. Il 30 settembre dello stesso anno, le Officine sono state inaugurate ufficialmente. Primo evento, da novembre a gennaio, la mostra Come una falena alla fiamma, curata dal direttore artistico Nicola Ricciardi. La mostra ha esposto oltre settanta opere di cinquantaquattro artisti internazionali, accanto a pezzi di particolare pregio provenienti dalle collezioni dei musei torinesi, dall’Egizio al Museo di Arte Orientale, dalla Galleria di Arte Moderna al Castello di Rivoli. Una scelta che ha voluto indicare fin da subito la volontà di saldare il nuovo complesso al tessuto culturale cittadino. In contemporanea, il palco dell’Ala Est ha ospitato, tra gli altri, i concerti di Ezio Bosso, Giorgio Moroder, The Chemical Brothers, Kraftwerk, Paolo Fresu, Noa e la meravigliosa performance dei Dervisci Rotanti diretti dal musicista turco Mercan Dede. Se non lo conoscete, procuratevi assolutamente il suo disco – capolavoro, 800, uscito qualche anno fa per l’etichetta Doublemoon. Nelle prime due settimane di apertura, i visitatori sono stati più di cinquantamila. I numeri che stanno dietro al restauro delle OGR non entreranno nel Guinness dei Primati, ma meritano assoluto rispetto. La superficie complessiva è di trentacinquemila metri quadri. L’edificio ad H si estende su ventimila, di cui seimila appartengono allo spazio mostre, alla Sala Fucine e al Duomo. Il perimetro è di mille metri, due volte quello del Colosseo. Le Officine, messe in verticale, che fatica!, raggiungerebbero un’altezza di cento e ottanta metri, dodici sopra il pinnacolo dell’amatissima Mole. Quindicimila i metri quadri delle aree esterne. Le finestre sostituite o recuperate ammontano a mille e duecento. Cento e quindici i chilometri di sviluppo degli impianti elettrici, idraulici, di areazione e riscaldamento, della fibra ottica. Rispettivamente cinquantacinquemila metri, novemila, cinquemila circa, seimila e cinquecento, e ventiduemila per i cavi di rame. L’acciaio da carpenteria, i bulloni e gli staffali mettono insieme il considerevole peso di ottocento e ottanta chili, pari a due volte la già considerevole stazza della Stazione spaziale ISS. La progettazione dei cinque ambienti tematici dello Snodo è stata affidata all’architetto Luca Boffa del Gruppo Building, che, con la scuola di cucina Italian Food Style Education, ha scelto di puntare sulla valorizzazione della filiera enogastronomica piemontese e sui piccoli produttori regionali. Lo Snodo si avvale di uno staff giovane, una cinquantina di persone, che garantisce l’apertura sette giorni su sette, dalla prima colazione alla cena, con estensione dell’orario nei week end alle due del mattino. La Corte Ovest, affacciata su via Paolo Borsellino, dispone di un giardino caratterizzato da una vecchia torre dell’acqua e da un palco per eventi, cene e aperitivi.