Samer Saidawi ha chiesto scusa in mille modi. «Non volevo offendere nessuno, avevo bevuto un po’ troppo e ho detto cose che non penso» ripete a chi lo intervista. Pochi gli credono. E comunque il vaso è rotto. Le gravi offese, registrate in un video postato sui social, che l’altra notte Saidawi – un cittadino libanese residente in Grecia che odia, lo dice e scrive lui, i partiti Hezbollah e Amal – ha rivolto al più venerato dei martiri sciiti, Hussein, il nipote di Maometto, lunedì notte hanno scatenato l’inferno nelle strade di Beirut. E potrebbero aver messo fine a due mesi di proteste pacifiche contro tasse, malgoverno, settarismo e corruzione, segnate solo occasionalmente da violenze.

 

Centinaia di giovani sciiti, molti dei quali sostenitori di Hezbollah e Amal, in sella a moto e scooter, dal quartiere di Khandaq al Ghamiq si sono diretti verso il centro della capitale issando stendardi con la scritta «Hussein» e scandendo «Sciiti…Sciiti». Erano intenzionati ad attaccare l’accampamento della protesta antigovernativa cominciata il 17 ottobre. Protesta che non considerano una “thawra” (rivoluzione), come affermano coloro che vi partecipa, bensì un disegno politico volto unicamente a tenere fuori dal governo Hezbollah e Amal, attraverso la formazione di un esecutivo composto da tecnici ed esperti. Giudizio estremo ma non del tutto infondato. I ranghi dei contestatori composti nelle prime settimane in gran parte da libanesi disperati – una ricerca calcola in 160mila i posti di lavoro persi solo negli ultimi due mesi – genuinamente arrabbiati contro tutti i partiti, senza eccezioni, ora vedono la nutrita presenza di attivisti e simpatizzanti delle forze schierate contro il fronte 8 Marzo, filo-Siria e guidato da Hezbollah.

 

I reparti della Isf (sicurezza interna) hanno contenuto con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni i giovani sciiti, che lanciavano sassi, bottiglie d’acqua e petardi, e impedito che raggiungessero il sit-in della protesta. Tuttavia diverse tende posizionate più all’esterno sono state date alle fiamme ed il peggio è stato evitato per un soffio. La situazione è tornata sotto controllo solo prima dell’alba di martedì. Qualche ora dopo però incidenti violenti sono scoppiati nella città-roccaforte dei sunniti, Tripoli. Gruppi di manifestanti hanno attaccato e devastato l’ufficio di un religioso sunnita che aveva espresso solidarietà agli sciiti presi di mira da Samer Saidawi. Poi sono andati in piazza al Nini e hanno dato fuoco all’albero di Natale allestito dal municipio. Migliaia di libanesi ieri sui social lanciavano l’allarme sul pericolo di nuovi scontri settari che finirebbero per stravolgere il senso delle proteste cominciate ad ottobre, avvicinando il paese al baratro di una seconda guerra civile che, almeno a parole, nessuno vuole.

 

Nel frattempo lo stallo politico continua. Ieri, alla vigilia dell’inizio, dopo due rinvii, delle consultazioni per la formazione del nuovo governo, il premier uscente, il sunnita Saad Hariri, dimessosi il 29 ottobre, si è fatto da parte dicendosi indisponibile a guidare il nuovo governo.  Una alternativa al momento non c’è mentre l’economia del paese affonda. E dall’Egitto, il presidente Abdel Fattah al Sisi, desideroso di far sentire la sua influenza anche in Libano oltre che in Libia, ha indirettamente invitato l’esercito libanese a prendere in mano la situazione come nel 2013 le forze armate hanno fatto in Egitto. «Gli eserciti nazionali sono responsabili della protezione della stabilità e della sicurezza del loro paese», ha detto commentando la situazione in Libano in un discorso pronunciato al World Youth Forum.