Nella bolgia mediorientale che ingurgita vittime ogni giorno, sulle macerie del Kurdistan la Turchia avanza come uno schiacciasassi. L’attentato di lunedì a Istanbul supera i confini di Sultanahmet e rimbomba a sud est, oltrepassa la frontiera siriana e risuona a Rojava. Quando l’Isis colpisce il cuore della Turchia, colpisce anche il nemico comune di “califfato” e Ankara: il movimento di liberazione kurdo.

Sono i kurdi, insieme ai civili siriani, a pagare le politiche della Turchia in Medio Oriente: schierato dal 2011 contro la Siria di Assad a cui sperava di sfilare il ruolo di leader in Medio Oriente, il presidente Erdogan ha incendiato i conflitti per costruire sulle rovine regionali una grande Turchia. Per farlo ha sostenuto gruppi islamisti e rilanciato in pompa magna la guerra contro i kurdi turchi, minaccia all’unità nazionale.

Oggi reprime la comunità kurda sventolando il feticcio della lotta globale allo Stato Islamico, nell’assordante silenzio degli alleati occidentali. A partire da Nato e Usa che usano la base aerea di Incirlik da settembre per raid contro l’Isis in Siria. Così, mentre impongono ad Ankara il pugno di ferro contro gli islamisti, mantengono il Pkk nella lista delle organizzazioni terroristiche (al pari del “califfato”) e chiudono gli occhi sulle violenze contro i civili.

Sono 162 quelli uccisi nel Kurdistan turco dalla fine di luglio quando la strage di Suruc fu usata per giustificare la ripresa del conflitto con il Pkk. Oltre 160 morti significano una persona uccisa ogni giorno: tra loro 29 donne, 32 bambini, un disabile, 24 anziani che si aggiungono ai 465 combattenti kurdi ammazzati. La presenza militare turca è capillare: 10mila soldati, centinaia di carri armati che da due mesi sparano missili nei centri abitati di Batman, Mardin, Cizre, Silopi. Impongono coprifuoco brutali (58 da metà agosto) lunghi per settimane e che hanno costretto 100mila persone a lasciare le proprie case. Costrette alla fuga dalla scarsità di cibo, dalle chiusure, dal malfunzionamento degli ospedali e dalla guerriglia urbana, dai proiettili della polizia che entrano nelle case e uccidono tra le pareti domestiche.

Si dovrebbe ricordarli tutti, vittime spesso senza nome. Le ultime in ordine di tempo: Abdulselam Yilmaz ucciso ieri di fronte alla sua casa a Cizre (sotto coprifuoco da 31 giorni); Veysi Elçi morto martedì sotto il fuoco della polizia a Cizre, mentre altri due civili subivano identica sorte a Kiziltepe.

Allo stesso modo si dovrebbe procedere all’elenco degli atti politici a corollario di quelli militari, specchio dell’ideologia della repressione. Il Dipartimento dell’Educazione ha annunciato ieri un’azione legale contro i professori universari turchi che insieme a colleghi internazionali hanno firmato una petizione la scorsa settimana per chiedere la fine dell’operazione militare contro il Kurdistan. Contro i 1.128 accademici provenienti da 89 università del mondo (tra loro Noam Chomsky), aveva già sbraitato Erdogan: «Ehi voi, cosiddetti intellettuali. Non siete persone illuminate, siete il buio».

Nel mirino del cecchino Erdogan torna anche la stampa, dopo l’eclatante caso dei giornalisti di Cumhuriyet, il direttore Dündar e il capo redattore Gül. Incarcerati dal 26 novembre con l’accusa di sostegno al terrorismo, rischiano la vita per aver pubblicato le prove della consegna di armi dai servizi segreti all’Isis. Ora tocca al programma tv Beyaz Show sul canale Kanal D, contro il quale la procura di Istanbul ha aperto un’indagine per “propaganda terroristica” per aver trattato le uccisioni di civili kurdi a sud est.

La strategia politica di Erdogan è lapalissiana, eppur invisibile agli occhi degli alleati occidentali. La Turchia ha intensificato le operazioni in Iraq, dove colpisce dal cielo le postazioni del Pkk, e in Siria dove il target non è lo Stato Islamico ma le Ypg, le unità di difesa kurde. Rojava, la regione kurdo-siriana che ha messo in piedi un progetto confederale e democratico, fa tremare i polsi al sultanotto Erdogan che teme il contagio. Kobane fa più paura di al-Baghdadi. Il contagio, però, già c’è stato. Ma più che “contagio” è condivisione di obiettivi politici: l’autonomia dai governi centrali di Ankara e Damasco e la concretizzazione dell’ideologia democratica del Pkk di Ocalan.

Pochi giorni fa la Turchia si era lamentata per le conquiste territoriali delle Ypg con gli Stati uniti, oggi sostenitori delle Forze Democratiche Siriane, di cui fanno parte anche i kurdi. Un corridoio di territorio lungo tutto il confine che impedirebbe ad Ankara di mantenere il controllo desiderato sulla frontiera e darebbe vita – nella pratica – ad una confederazione kurda tra Turchia e Siria.