Si può fare grande pittura prendendosi continuamente gioco della pittura? Ci si può mascherare dietro un eclettismo a oltranza e intanto macinare opere che ambiscono a una esplicita bellezza? Sono le domande che inevitabilmente saltano addosso girando tra le sale di Palazzo Grassi, dove sono state raccolte, con la consueta coerenza espositiva, un’ottantina di opere di Albert Oehlen (Cows by the Water, fino al 6 gennaio; catalogo Marsilio).
Oehlen fa parte di quella strana famiglia di artisti tedeschi che per una chimica difficile da ridurre a una formula hanno tenuto insieme una vocazione alla pittura eredità inesausta dell’espressionismo e l’estemporaneità azionista di Fluxus. È una famiglia di artisti che in tanti casi sono usciti di scena troppo prematuramente, come Martin Kippenberger, Sigmar Polke, Franz West e Jörg Immendorf. Artisti di una grandezza sempre un po’ stralunata, che non si sa mai dove collocare ma che ancora oggi non smentiscono una loro vitalità aspra e imprevedibile.
Un allestimento destabilizzante
Quanto a Oehlen, così è stato definito da Stephen Ellis, critico e artista americano: «Albert Oehlen è una chimera le cui parti contradditorie sono precariamente assemblate in un organismo vitale». L’immagine è efficace e rende bene la sensazione che si ha visitando la mostra, giustamente montata in modo destabilizzante da Caroline Bourgeois. L’allestimento non segue infatti nessun criterio cronologico ma, come sottolinea la curatrice, è «scandito in modo sincopato tra i diversi generi e i diversi anni». Oehlen macina continuamente approcci diversi, mettendo ogni volta alla prova la tenuta della pittura. È un duello, una sfida continua consumata sul filo dell’ironia e del paradosso, lanciata sin dal Quadro Numero 1. Oehlen ne ha raccontato la genesi in un dialogo con Georg Baselitz: un’opera affidata al caso, nata su una tela bianca che qualcuno aveva impunemente dipinto nel suo studio, e cresciuta sull’onda di un’ispirazione del tutto episodica. «Cosa Quadro Numero 1 potesse voler dire, sarebbe stato un problema del quadro successivo. Dovevo appropriarmi di questo mostriciattolo, dirmi che andava bene e dimostrarlo con i dipinti 2 e 3. È così che è cominciato».
Pur dentro questo andamento anarchico e inclassificabile si può identificare comunque una costante: Oehlen ha una natura che lo porta ogni volta a creare uno spazio. È uno spazio innanzitutto fisico, nel senso che alla pittura non risparmia mai le grandi dimensioni. Ma è soprattutto uno spazio mentale liberato dall’obbligo di una coerenza. È lo spazio in cui alla pittura è permesso di accogliere la contraddizione, che può essere ironia su di sé in quanto pittura o negazione di quel che è stato fatto nel quadro a fianco.
Il fascino della mostra sta proprio in queste continue aperture immotivate e a volte, in apparenza, persino irragionevoli. È quanto accade ad esempio con i Computer Painting, una serie iniziata negli anni novanta ma che Oehlen non ha mai abbandonato: l’artista interviene su un tracciato di segni generati in modo random dal computer, correggendo il prodotto artificiale con segni pittorici, per poi produrre il tutto in serigrafia su vasti fondi bianchi. Sono opere che, conoscendo l’attrazione di Oehlen per il free jazz e per tutta la musica che fa leva sull’improvvisazione, si possono anche leggere come trascrizioni visive di quelle irripetibili avventure sonore. Del resto il titolo di una delle opere più emblematiche di Oehlen, datata 1984, rivela la vocazione musicale della sua pittura: Rockmusic III (Dio quando ha inventato il rock doveva essere arrapato).
Le otto tele della seie «Elevator»
La vocazione a spaziare porta Oehlen anche a spingersi nel campo di grandi collage con frammenti di manifesti commerciali, dove il pop così enfatizzato finisce con il rovinare ironicamente su se stesso: non è solo la pittura che viene messa sotto tiro… Certamente però la pittura alla fine dice la sua. Come accade nella grande sala dove sono raccolte le otto tele quadrate della serie Elevator (2016). Anche nel montaggio espositivo si avverte un qualcosa di ascensionale e di tiepolesco in queste opere di oltre due metri di lato; squarci di cieli, accesi da tempeste pittoriche che Oehlen raffredda esponendo nella stessa sala un’opera di stile richteriano, un freddo catalogo di colori disposti a quadrati regolari. Se non ne comprendiamo la pertinenza, ci pensa il titolo a chiarire i dubbi e a stabilire la relazione: Viaggio nello spazio (1984).
Anche se in una mostra come questa siamo invitati a mettere da parte la cronologia, è difficile non cogliere come nella più recente stagione Oehlen raggiunga dei vertici qualitativi e anche emotivi. Del 2009 è il ciclo quasi intimo, pervaso da un brivido romantico, intitolato h.a.t.: tele verticali sulle quali la pittura si deposita come dalla punta di una piuma. Sono opere che sembrano non aver nulla a che vedere con la grande serie degli alberi, realizzata su un supporto ben più freddo come il Dibond e costruita sempre in modo liberamente geometrico. Un tracciato nero e molto pultio restituisce, un po’ alla Mondrian, la memoria visiva di alberi denudati dall’inverno. Una fascia, quasi sempre rossa, stesa con pennellate larghe e regolari che degradano dal chiaro allo scuro, evoca invece uno sfondamento. Forse, ancora una volta un cielo. «Nel mio lavoro», ha spiegato una volta Oehlen, «sono perennemente circondato dai dipinti più spaventosi. È vero. Vedo solo brandelli di una bruttezza insopportabile che all’ultimo momento, come per magia, si trasformano in qualcosa di bello».