«Il racconto dell’adolescenza africana che non ho mai avuto». Così, in un’intervista a Le Monde, Mati Diop descrive il suo Atlantique, presentato in concorso il terzo giorno del festival . È il primo lungometraggio dell’attrice/regista, nipote del grande autore senegalese Dijibril Diop Mabety e figlia del musicista Wasis Diop. L’avete vista in 35 rhums, di Claire Denis, e in Simon Killer, di Antonio Campos.

LE RADICI di questo esordio al lungometraggio – una delle cose più belle viste finora qui a Cannes – sono nel corto documentario che la regista diresse dieci anni fa, Atlantiques, costruito intorno al racconto dell’odissea clandestina verso l’Europa di un ventenne di Dakar, Serigne. Il mare – il suo mistero, la sua grandezza, la sua minaccia, la sua promessa – è un’immagine ricorrente nel film.
Diop lo riprende in colori, umori e orari diversi -le sue onde che lambiscono il quartiere alla periferia di Dakar dove è ambientato questo Giulietta e Romeo del terzo millennio, striato di un gotico che ricorda quello austero, potentissimo, dei film di Jaques Tourneur/Val Lewton e in cui si riconosce fortemente l’influenza del grande cinema africano di cui Dijibril Diop Mambety è stato uno degli sguardi più magici e visionari. Alla memoria dello zio, e al suo film Touki Bouki (Cannes 1973), Mati Diop ha dedicato un documentario, Mille Soleils (2013). Atlantique inizia con gli squarci della storia d’amore tra Ada e Suleiman, che si incontrano furtivamente in edifici diroccati sulla spiaggia. All’orizzonte denso di smog, il brutto grattacielo nel cui cantiere Suleiman e molti ragazzi come lui stanno spezzandosi la schiena da anni senza essere pagati da un ricco imprenditore che continua a rimandare.
Suleiman nasconde ad Ada la sua disperazione. Lei, a sua volta, tace il fatto che i genitori l’hanno promessa a un giovanotto ricco che lei però non ama – il vestito da sposa che l’attende a casa. Ma quando sono insieme tutto ciò scompare: l’unica cosa importante è il prossimo appuntamento. Scappata, di notte, dalla finestra (finestre e tende che ondeggiano un’altra delle immagini emblematiche del film, che ne suggerisce l’approccio sottile e limpido nei confronti del sovrannaturale – la fluidità tra la realtà e gli spiriti), Ada arriva nel locale notturno dove devono incontrarsi e trova solo decine di ragazze sole come lei: i «boys» sono partiti, su una piroga, alla volta della Spagna, le dice l’amica barista Dior. «Non è possibile, mio fratello non sa nemmeno nuotare!», urla una di loro. «Fermiamoli!». Ma l’Atlantico appena illuminato dalla luna li ha già assorbiti nel suo blu inchiostro.
Diop (il film è una coproduzione franco-africana, in cui si intravede appena certa coolness patinata tipica dello sguardo Arte’ sul Terzo mondo) controlla il racconto in modo sicuro. Non rimane più nulla tra Ada e le nozze con il ricco rampollo che le regala un iPhone rosa. Eccetto il letto nuziale (un orrore in legno bianco e dorato, barocco come una torta) che va in fiamme, tutto da solo. Qualcuno inizia a sussurrare che Suleiman è tornato in città….

IL GIOVANE detective assegnato al caso soffre di strani malori; lo stesso succede ad alcune delle ragazze. Il ricco imprenditore ladro subisce inquietanti visite notturne. Insieme al dramma e all’incognito di chi parte, Diop coglie quelli di chi resta – decine di giovani donne. Parte della loro difficile eredità è cercare giustizia. E la regista/sceneggiatrice, nella sua delicata, malinconica, storia di fantasmi, con un espediente poetico semplice e quasi letterale, ci regala un film di morti che tornano molto più profondamente fedele a George Romero dell’omaggio esibito di Jim Jarmush.