A causa dei cambiamenti climatici e dei successivi interventi selvaggi di ingegneria ambientale, la terra si è surriscaldata, i mari sono cresciuti e il panorama geografico e politico mondiale è completamente cambiato.
Zone un tempo floride diventano secche, aride, luoghi in cui si uccide per una goccia d’acqua. Le popolazioni non sanno più cosa sia la pioggia, tutto evapora; analogamente luoghi un tempo aridi fioriscono e diventano i posti dove salvarsi. Lo scioglimento dei ghiacciai favorisce i paesi nordici e nuove rotte di navigazione prima impensabili. È lì la salvezza e il nuovo centro del mondo. La vecchia Europa mediterranea e centrale è fagocitata dalla siccità, mentre città scandinave un tempo sconosciute ora sono metropoli mondiali. Napoli è teatro di quotidiani scontri tra musulmani e cristiani, frutto malato di migrazioni ambientali disperate. Le istituzioni si sfaldano, gli stati smettono di esistere, non si vota neanche più «ma nessuno sembra notare la differenza».

Negli Usa al potere c’è un reverendo, sono espulsi tutti gli stranieri, è chiuso internet, aboliti i voli aerei, inserite le teorie creazioniste nei pochi libri delle poche scuole che rimangono. Le persone smettono di leggere, disimparano a scrivere, vivono come reietti sulla crosta surriscaldata di una terra respingente. E dall’Italia, verso la Scandinavia, parte un gruppo di disperati: ha affidato la propria vita alla TransHope, una società che con guide militari, in cambio di soldi, porta queste truppe di straccioni verso il paradiso, verso la Scandinavia, disegnando rotte, affrontando fiumi di cui rimane solo il pietrisco del letto, affrontando predoni e poliziotti che ancora difendono oasi dove si trova traccia di acqua (come la Svizzera).

Ci vuole tutta la classe, l’umiltà e la grande padronanza della scrittura di Bruno Arpaia per tirare fuori un’opera distopica che fa appiglio su un pericolo reale, il cambiamento climatico, e che finisce per giocare con un futuro di cui si ha un esempio tangibile, da cui attingere già adesso, nella tragedia dei migranti. Si tratta di Qualcosa, là fuori (Guanda, pp. 220, euro 16). Il titolo è un «omaggio postumo» come afferma l’autore, all’opera dallo stesso titolo di Enrico Bellone, un saggio su «come il cervello crea la realtà», come nascono il senso comune e l’apparente nostra lettura della «verità». Arpaia si conferma un grande scrittore, forse meno visibile di tanti che si dichiarano innovatori, ma prorompente nei temi che offre.

I suoi libri non sono mai banali: non lo era il fantastico Angelo della Storia (una sorta di biografia romanzata di Walter Benjamin) e non lo era L’energia del vuoto, entrambi pubblicati da Guanda. Arpaia sembra togliere, asciugare, prosciugare la scrittura per descrivere l’odissea improvvisa in cui si trovano incatenati i personaggi; è un’arte questa, non è solo esperienza. Mentre si cerca l’acqua, la vita, Arpaia taglia, inaridisce, per arrivare al cuore dei personaggi, terra compresa. Uno dei disperati in cammino è Livio, scienziato che arriva da una tragedia personale. Di solito si parla del passato per parlare del presente, Arpaia sceglie un’altra angolazione: un futuro che non sembra così lontano. Anche temporalmente, quei riferimenti che via via nel libro consentono di inquadrare la storia, non sono troppo in là.

Parliamo del 2050, degli «scontri del 2068», quelli che distruggono Piazza Navona a Roma, mentre il Colosseo è un luogo di rifugio per gli appestati. Arpaia però non esagera, non cade nel tranello della distopia fine a sé stessa: ogni mattone della storia è minimo, essenziale, quanto basta. Le linee narrative sono due, entrambe nel futuro: quella della vita americana di Livio, che nella bolla d’amore con Leila e il figlio quasi non si accorge di quanto accade e quella ancora più in là, ambientata nel duro percorso verso la Scandinavia. Due registri futuri che giocano con il tempo, che quasi lo dilatano e lo avvicinano, lo mescolano con il tempo nostro, del lettore.

Il mondo capovolto di Qualcosa, là fuori si inserisce in un filone letterario che ricorda per ambientazione e stile, nonché per paranoia e quasi alterazione dei sensi, McCarthy e Ballard (citati dall’autore nell’Avvertenza finale): «seguivano serpeggiando le zone più pianeggianti fra le colline basse, dove anni prima c’erano boschi e laghi, cercando l’ombra per ripararsi dal sole dispotico che non dava tregua. Le notti, invece, erano lunghe e fredde, interminabili, popolate di incomprensibili rumori: a volte erano metallici, altre volte più cupi e cavernosi; a volte erano abbastanza lontani, però poi avanzavano, si raggruppavano in una specie di scaramuccia e si disperdevano ancora, prima di liquefarsi in un silenzio nero e angosciante».

Esiste una letteratura «ambientalista» che si affaccia sulle nuove urgenze umanitarie. Ne sono la prova Oro nero di Dominique Manotti, Sellerio editore o lo stesso Non fidarti, non temere, non tremare di Ben Stewart (e/o edizioni) o ancora Check Point di Jean-Cristophe Rufin (e/o edizioni). Arpaia compie un passo in più, soprattutto stilistico e ontologico, perché inserisce il pericolo dei cambiamenti climatici in un’opera universale, capace di affrontare anche temi come il ricordo e il racconto, la memoria e le sue pericolose trappole. «A volte – dice il protagonista del libro – ci sono cose che uno preferirebbe non capire, perché capire significa anche sapere senza scappatoie che disastro siamo».

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Il festival della Nuova Rivista Letteraria edita da Alegre, arriva per la prima volta a Bologna, la città che è il cuore pulsante della sua redazione, lì dove la rivista fu fondata da Stefano Tassinari. Il tema della tre giorni è «Tra utopie e Distopie». Venerdì, sabato e domenica al Vag61 in via Paolo Fabbri 110 si alterneranno reading, presentazioni ed eventi. Tra gli ospiti Bruno Arpaia, che presenterà il suo libro oggi alle 21. Tra le altre presentazioni anche «Il sentiero luminoso» di Wu Ming 2 con Adriano Masci e Wolf Bukowski e la presentazione in anteprima della nuova uscita per Alegre nella collana Quinto Tipo «Tabloid Inferno» di Selene Pascarella, con Wu Ming1 e Tommaso De Lorenzis.