A cinque anni dalla sua scomparsa, il Teatro alla Scala commemora Patrice Chéreau, che proprio a Milano ha mosso i primi passi con Strehler al Piccolo Teatro e che nei suoi ultimi anni le ha regalato spettacoli memorabili come Tristano e Isotta e Da una casa di morti, riprendendone l’ultima fatica: Elektra (1909) di Richard Strauss, firmato nel 2013 per il Festival d’Aix-en-Provence, in coproduzione con Metropolitan Opera House di New York, Finnish National Opera di Helsinki, Staatsoper Unter den Linden di Berlino e Gran Teatre del Liceu di Barcellona, approdato a Milano l’anno successivo, solo dopo la morte del regista.

SUL PODIO, questa volta, al posto di Esa-Pekka Salonen, c’è il quasi novantenne Christoph von Dohnányi, che però dopo la prima ha un malore e viene sostituito da Markus Stenz, peraltro già alla Scala per le prove di Fin de partie di György Kurtág, che debutterà il 15 novembre. La regia di Chéreau ripresa da Peter Mc Clintock, assieme alle scene di Richard Peduzzi, ai costumi di Caroline De Vivaise, al light design di Dominique Bruguière (ripreso da Marco Filibeck), mantiene intatto il suo potere di dare vita a una drammaturgia della psiche severa, affatto compiaciuta eppure intensa, a tratti lancinante, servendosi di pochi oggetti e gesti scarnificati all’interno di spazi cromaticamente raffreddati e prospetticamente compressi. Nessuna aggiunta, illustrazione o enfasi, piuttosto sottrazioni ed energie compresse che si liberano solo a tratti e mai catarticamente, danno corpo al dramma da cui Hugo von Hofmannsthal ricava il suo libretto, le cui asperità e afasie si collegano direttamente alla recente Lettera di Lord Chandos e che rilegge la tragedia di Sofocle attraverso l’Amleto di Shakespeare a sua volta riletto da Freud (L’interpretazione dei sogni, che contiene le famose pagine su Edipo e Amleto, è del 1899) e attraverso la lente del simbolismo fin de siècle.

AIUTATI dal direttore Stenz, inseritosi all’ultimo minuto in una produzione che riesce a maneggiare con straordinaria disinvoltura e con una potenza espressiva e una precisione dei dettagli che lasciano attoniti, i cantanti-attori riescono nel compito non facile di resuscitare l’intenzione del regista. Ricarda Merbeth, benedetta da una voce potentissima e sempre a fuoco, tiene l’intera opera sulle sue spalle, dando corpo a un’Elektra, ebbe a dire Chéreau, «non folle ma perduta, prigioniera del suo mondo, sola come una bambina non cresciuta, oppressa dal rapporto amore-odio per la madre e dal rimorso di non aver saputo impedire l’assassinio del padre Agamennone». Waltraud Meier scolpisce una Klytämnestra oltre «i luoghi comuni interpretativi dell’opera e l’uniformità espressiva di questo personaggio raffigurato sempre con caratteri solo aspri e antipatici. Anche lei è vulnerabile perché non riesce a rimuovere la propria colpevolezza, e vorrebbe tornare a dialogare con le figlie. Del resto, tutta Elektra rievoca una storia di famiglia, terribile ma vera, in cui nessuno ha ragione o torto soltanto: tutti sono umani».

UMANISSIMA è Regine Hangler, che tratteggia una Chrysothemis rotonda e animata da un desiderio di vita e da una fecondità che la sua voce esprimono senza riserve. Michael Wolle restituisce un Orest allo stesso tempo statuario e accorato. Il risultato è uno spettacolo che precipita inesorabile verso il finale, dominato dal richiamo ossessivo al tema del sangue: quello dei legami familiari, quello della fertilità cercata o respinta, quello purificatore della vendetta. Repliche fino al 29 novembre.