Mercoledì sera, era cinquant’anni fa nella grande sala 1 del cinema Massimo, piena per la proiezione della copia, appena restaurata, dell’ottavo film e mezzo di Federico Fellini. Per l’avanspettacolo, sono saliti sul palco il direttore del festival Paolo Virzi, l’attrice del film Sandra Milo e il presidente di Medusa film, Carlo Rossella, società che, in collaborazione con il Centro sperimentale della cinematografia, ha realizzato il restauro. In genere, le luci di queste ribalte vengono evitate da chiunque ami l’ambiente anonimo delle sale oscure. In questo caso, una lettura superficiale del programma poteva trarre in inganno. Il film di Fellini compare infatti, unico tra quelli di repertorio, nella «festa mobile» (fuori concorso). Come se il programmatore volesse dire allo spettatore: vedilo con occhi nuovi, non contaminati dalla retorica del culto, confrontane pregi e difetti con altri film di oggi, con Inside Llewyn Davis dei fratelli Cohen o con This is Martin Bonner di Chad Hartigan.

Niente infatti nuoce ad un cineasta più della consacrazione a «maestro». Nel momento in cui diventa oggetto di culto, l’opera cessa di essere guardata per essere acriticamente adorata. La speranza era allora di assistere ad una proiezione senza preamboli o, più classicamente, ad una sobria introduzione da parte di un curatore, magari esperto del cineaste in questione. Un’occhiata al programma del festival, dove l’editoriale di festa mobile parla di «omaggio a Fellini santo protettore» di tutti gli altri, avrebbe subito smentito queste pie illusioni. E infatti ai presenti è stata servita la solita messa.

Comincia il direttore Virzì, con un’ode rivolta al maestro del sogno; ode tutta giocata sul registro, apparentemente celebrativo, profondamente auto-incensatorio, della prostrazione, dove il piccolo regista si inchina davanti al gigante che, pur ispirandolo, appartiene ad un passato che non può tornare. Ecco che l’elemento religioso (il tempo dei titani è finito) trova la sua spiegazione in una confortante ideologia assolutoria (non potete confrontarci con loro). Ecco che l’idea di mettere sullo stesso piano un film italiano del 1963 con tanti film di oggi, occasione di rivalutarne pregi e difetti, viene disinnescata.

Neanche la presenza di Sandra Milo, è servita a raddrizzare la barra in direzione del film, di cui non si è voluto dire nulla, non foss’altro che un accenno al titolo, all’anno di produzione, al contesto in cui è nato. Del resto, sarebbe come pretendere che un sacerdote, commentando un passo del Vangelo, giudicasse utile all’esegesi della parola di Dio la comprensione del contesto storico e sociale in cui questa si è manifestata. Il più sobrio, è stato Carlo Rossella, non per indole ma per prudenza: nel giorno della deposizione di Silvio Berlusconi, accanto ad un direttore nominato dal Pd, anche un sorriso può fare alfaniano. Si è limitato a dirsi contento del nuovo Dcp e ha annunciato la novella del Blue Ray prossimo venturo; ma sulle scelte fatte in fase di restauro dell’originale, discutibili, nulla di preciso o di utile per il pubblico. Si dirà che questo siparietto di parole troppo alate e di volti troppo abbronzati racconta, a modo suo, l’attualità di uno degli aspetti del cinema di Fellini, la cui satira dei costumi non è certo invecchiata. Ma si tratta appunto di un aspetto di quel cinema.

In quel mentre, al cinema Lux, si parlava portoghese. O Camihno de Jeorge è il primo film di Miguel Moraes Cabral. Il film segue un arrotino che, a bordo di uno sgangherato motociclo, batte il nord del paese, a sua volta inseguendo una perturbazione che, se gli rende gramo il cammino, promette di portargli, con qualche ombrello da riparare, quel tanto che basta a tirare avanti. Da questo semplice programma, in parte soverchiato dal ricordo dell’arrotino di Sicilia!, il film sfugge volentieri. E i migliori sono proprio quei momenti in cui, senza cerimonie, il doc congeda il viandante e con lui la via che porta fatalmente alla fine del mondo antico per attardarsi a prendere un caffé con altri personaggi, incontrati per strada.

L’impressione è che il momento più alto, dal lato dei docs, è stato raggiunto subito con Il segreto, poi con A Spell to Ward off the Darkness (di Ben Russel e Ben River) e con lo splendido Stop the Pounding Heart di Roberto Minervini (questi ultimi due premiati della sezione internazionale doc). Restano impresse, tra le altre, due proposte del discorso sull’identità che il comitato ha chiaramente voluto inserire come filo conduttore del programma dei documentari. Una è Portrait of a Lone Farmer di Jide Tom Akinleminu, ritratto di un contadino keniano che rima, completandolo dal lato della pratica, il ragionamento sulla molteplicità delle dimensioni dell’io di The Stuart Hall Project.

L’altra è La Passione di Erto di Penelope Bortoluzzi. Ad Erto, nella valle del Vajont, resiste una tradizione paesana di rappresentazione della passione di Cristo. Il film intreccia due fili; Il primo è quello della preparazione, oggi, dello spettacolo. Il secondo è quello della storia di Erto nel novecento. Entrambi insistono sulla medesima questione: a chi resiste questa passione? Per rispondere si torna ancora a cinquant’anni fa, prima sulle conseguenze del disastro del Vajont (9 maggio 1963) a cui è seguita la deportazione della popolazione a valle in una città costruita ex novo (sorta di prova generale della politica delle emergenze a venire), e poi alla storia di questa rappresentazione popolare che negli anni si è scontrata con la liturgia della Chiesa. Ne esce il quadro di un’opposizione, sia culturale che politica, più che mai attuale ad un modello di modernità.