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Octavio Paz, poesia e umanità, un unico destino

Octavio Paz, poesia e umanità, un unico destinoCortile a Città del Messico, 2021 (Alejandro Cegarra/Bloomberg via Getty Images)

Scrittori messicani L’anno del Nobel, il 1990, Octavio Paz pubblicò una raccolta di quattro saggi, scritti nell’arco di due decenni, l’ultimo dei quali sintetizza il suo pensiero sul valore dei versi: «L’altra voce», Mimesis

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 19 novembre 2023

Scrittori di ogni latitudine hanno legato il loro lavoro a considerazioni sulle origini territoriali e sulle ragioni del loro scrivere, e il Novecento latinoamericano – in particolare nel genere saggistico, declinato in tutte le sue articolazioni – ha costruito un archivio di testi imprescindibili, ancorati in alcuni casi così saldamente alla scrittura di finzione o alla poesia da risultare indispensabili al momento di affrontarne la lettura e l’interpretazione. L’opera di Octavio Paz è un esempio quasi paradigmatico di questo dialogo continuo, raccolto in volumi – Il labirinto della solitudine, L’arco e la lira, Sor Juana o le insidie della fede, La duplice fiamma, per limitarsi ai titoli reperibili in italiano e alcuni solo in biblioteca –  imprescindibili per il pensiero messicano e latinoamericano. Nel 1990, l’anno del Nobel, Paz pubblicò in Messico una raccolta di quattro saggi scritti nell’arco di quasi vent’anni, che ora esce con il titolo L’altra voce Poesia e fine del secolo (a cura e con un saggio di Massimo Rizzante, Mimesis, pp. 124, € 12,00): la sua natura di miscellanea e di testi d’occasione ne ha fatto, per i critici, un testo minore, ma l’ultimo dei saggi contiene pagine di grande suggestione, che funzionano come una sintesi liminare della ricerca poetica di Paz.

Il primo scritto riguarda il genere letterario del poema extenso, ma purtroppo la sua traduzione approssimativa non permette di seguire il ragionamento dell’autore. Il poema extenso non è infatti una poesia lunga, bensì quel tipo di produzione discorsiva esemplificata nei titoli citati dallo stesso Paz, dal Mahabharata alla Divina Commedia. Il curatore poi scambia, in una sua aggiunta alla traduzione, le Soledades di Góngora evocate da Paz con l’omonima raccolta di Antonio Machado, contribuendo a confondere ancor più le idee.

Nel secondo contributo, Paz riprende invece una delle sue idee più felici, espressa in Los hijos del limo (1974), quella dell’alternanza tra «tradizione e rottura», chiave essenziale per la comprensione della poesia messicana del Novecento, cercando di applicare quella sua teoria alla poesia universale; ma la generalizzazione del discorso causa una perdita di contatto con i testi, che si trasformano in una dichiarazione dell’ultimo Paz, che propende per una visione del poeta come ultimo difensore degli eterni valori della poesia. La stessa tendenza torna nel saggio su «Poesia, mito e rivoluzione», il breve discorso pronunciato per la consegna di un premio in Francia. La coincidenza con gli avvenimenti del 1989 ne condiziona il giudizio, che appare come una dichiarazione funebre sul rapporto intrecciato – dai romantici in poi  – tra poesia e rivoluzione. Se però, secondo Paz, l’idea di rivoluzione è ormai al crepuscolo, la poesia dovrà compiere un atto di memoria, preservando così il suo stato privilegiato.

La seconda parte del libro, «Poesía e fine del secolo», è divisa in quattro sezioni e le prime tre si concentrano sulla produzione e il consumo dell’artefatto poetico nel contesto della società contemporanea. Un tempo centrale e allo stesso tempo eccentrica per la sua «tradizione di critica e di ribellione della modernità», la poesia è oggi ridotta a un genere minore a rendimento zero, schiacciato dalla logica di mercato. Alla domanda sul ruolo della poesia nel futuro, Paz risponde ribadendo il suo potenziale utopico, con una sorta di professione di fede: «Se l’uomo dimenticasse la poesia, dimenticherebbe sé stesso. Tornerebbe al caos originario». Questo collegamento tra discorso lirico e contesto storico-economico è abbastanza inusuale nell’autore messicano, ma non va oltre considerazioni generali e un po’ astratte, ed esclude dal ragionamento ciò che non rientra nel suo canone poetico. Ne viene fuori una visione idealistica del linguaggio poetico, cui Paz attribuisce la forza e il radicamento del discorso religioso o rivoluzionario, confermata nelle ultime pagine, intitolate appunto l’altra voce. Qui il tono, nella ricerca del modo in cui la poesia può rinnovare la sua funzione e accompagnare gli uomini verso la fraternità (concetto chiave della triade ereditata dalla modernità) si fa quasi profetico: la sopravvivenza della poesia sembra dunque legata a doppio filo con quella dell’umanità tout court. Il tempo trascorso ha fatto invecchiare queste pagine, una sorta di lascito dell’ultimo Paz, che osserva – con una certa malinconia, come lui stesso ammette – il proprio percorso autoriale, mostrando come la sua idea di poesia abbia sempre rincorso la possibilità di farsi  «lezione pratica di armonia e di concordia». Il suo discorso non ha dunque, qui, velleità profetiche, è invece  la sintesi estrema di una traiettoria ormai sul punto di concludersi, che coincide con la declinazione più moderna di quella poesia che Paz aveva arricchito con tanti testi memorabili.    

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