Inaspettata deviazione estiva. Lasciare l’afa e il frastuono ovattante della strada, lo sciame assordante dei pensieri, per il fresco silenzioso di una chiesa. Pausa. Forse è un tempio oppure una radura. Pausa. Distese d’ombra, e mari di profondità di campo. Aria speziata e assenze di suono prolungate. Ed ecco il vuoto, il luogo altro dell’altrove. Miracolosamente, sebbene attaccata ferita martoriata – a ogni dove e a ogni latitudine – l’essenza femminile del mondo, ancora si dà, si dona, si rivela, a chi sa percepirla, a chi sa risuonare della sua non belligerante bellezza. Pausa pausa e ancora pausa. “Chi medita il mistero si fa mistero egli stesso”.

Ecco, come in un riverbero dell’iconografia bizantina, l’incontro è frontale, vis à vis. Nessuna mediazione o frapposizione. In fondo alla navata centrale, nell’alveo più protetto, sopra l’altare, nel cuore del tempio, nell’anfratto più interno della radura, sia che siamo credenti sia che non lo siamo: Lei ci attende. Ancora una volta, e un’altra.

Mater Matuta, Madre dell’Aurora, Madre Terra, Rosa Rosæ, Gratia Plena, Vergine nera, Sophia, Shakti, Parvati, Buddha Buddhæ, Mandorla mistica … E ancora Nostra Signora delle fiere, del creato, Mandala dei mandala, Magnificat … Infiniti sono i suoi nomi e infinite le forme della sua corallina energia spirituale, della sua attitudine ad accogliere e a generare.

Sì: è nucleo, fulcro del cerchio, abbazia incandescente, ologramma di sguardo e di ventre, di invisibile e incarnato, evanescente e corporeo. Tra tabernacoli e candelabri, Kundalini come linfa sensuale e serpenti, quadrifogli, quinte e teatri dell’anima, fiaccole e sorgenti, affettuose tigri, sublimi cervi, elefanti e draghi, così l’ha colta, nella sua leggerezza squisita di filigrana, coi suoi “occhi-vaso”, Octavia Monaco, cercatrice del Sacro Femminino, esploratrice tra illustrazione e pittura, est e ovest, veggente, come Cassandra di Wolf, tra abisso e ristoro. “No, non ero pazza, avevo solo bisogno di essere tranquillizzata. Di quiete che non era quiete di tomba. Quiete viva. Quiete d’amore”.

Non è follia, No, ghetto in cui per timore è rinchiusa nei secoli la sapienza di donna, ma desiderio, sottile sentire, e creazione. Allora può pure darsi che il luogo di raccoglimento di cui sopra sia una galleria, ingresso su una strada cittadina di Bologna, due stanze tra il mondo e un giardino: “Nelumbo – asian fine arts –“ , spazio sbocciato nel 2011 come il fiore di loto di cui porta il nome, a effondere il profumo dell’arte e della filosofia asiatica per le vie contigue di Occidente.

Qui, grazie al “maternage” della direttora Camilla Hilbe e della curatrice Paola Goretti – a sua volta artista e autrice per il catalogo di un testo bello e criptico come una perla nell’ostrica -, è possibile accedere a “Inda Angelica Fiamma”, il pantheon di opere e dee, di cui Octavia Monaco si è fatta custode (la mostra è visitabile in via Arienti, 10, finissage posticipato fino al prossimo 20 giugno).

Non è la prima volta che le loro strade convergono. Già nel 2013, complice una esposizione sul Katagami – stampi giapponesi per pittura – Nelumbo e Monaco si erano rispecchiate l’una nell’altra, tanto che l’anno seguente erano germinati Maternità e Annunciazione, due trittici in legno, poi proposti con il titolo di Ierofanie.

Né Monaco è nuova all’indagine su “Vita Donna Natura e Senso del divino”, all’esplorazione del sacro fiammeggiante racchiuso nella maternità, biologica o creativa che sia. Perché indimenticabili restano le tavole da lei istoriate per La nascita delle stagioni, intorno a un testo di Chiara Lossani e per un albo edito da Arka (con cui ha a lungo collaborato – si vedano i suoi lavori ispirati a Klimt, tra l’altro esposti nel 2004 presso la libreria del Louvre, e a Van Gogh).

Allora il suo era un grido incontenibile per incanto e colore, sentimentale melodia visionaria per madre e figlia: Demetra e Persefone, deità oblunghe antenate di tutte le donne resistenti a qualunque forma di potere maschile; qui la ricerca della “curandera” Monaco conduce a esiti più meditativi e rarefatti, in un impalpabile assottigliarsi di colori – solo tanto nero, nuance di blu-indaco e verde – e accentuarsi della dimensione mentale e simbolica.

Accade così che il corpo si manifesti come luce inafferrabile, come “viscere celesti”, nell’accezione di Maria Zambrano, come danza (arte rito e ritmo, ricorda l’autrice nelle note ad accompagnare il catalogo, hanno la stessa radice sanscrita), basilica e casa, rosone e spirale del Tao, rifiorire dell’arco gotico a sesto acuto e sua speculare proiezione, inoppugnabile celebrazione del mistero della “tasca vagina”, cattedrale croce grotta di uova e tripudio di finestre, come moltiplicarsi degli sguardi ed esoteriche intuizioni, rispondenze tra le corporee architetture di donna e quelle del culto, nonché naturalissima immane trasmutazione del sangue in latte. Vi nutrirò tutti, non di latte ma di fuoco (era il sigillo di Caterina da Siena).

In tutto il mondo esistono immagini di Dee smembrate: in India, tra i Sumeri e in Messico … Da una prospettiva storica esse raffigurano il frantumarsi del mondo pacifico precedente quello lacerato dalla guerra che abbiamo creato negli ultimi cinquemila anni. L’atto dello smembramento è sempre attribuito a un dio maschio che in ogni cultura ha preso il posto della Dea”. Ha scritto Vicky Noble.

Ecco, quelle di Octavia Monaco, diremmo con Paola Goretti, sono “visioni compassionevoli”, Figure della contemplazione, unguenti lenitivi e terapeutiche ricomposizioni, rammendi nell’accezione più sublime del termine. Nel senso di pratiche volte a risanare, come scrive Irigaray “l’integrità della presenza femminile – incarnazione di un mistero irrivelabile”.

Per lasciarci poi sempre con le sue illuminanti parole, al di là di Oriente e Occidente: “Si può sperare che l’affermazione di una soggettività umana diversa riuscirà ad aiutare l’uomo a risolvere i suoi rapporti con la natura, con la madre e con la sua stessa identità naturale, diversamente dal dominio e dall’asservimento ai suoi bisogni e istinti”.

 maria_grosso_dcl@yahoo.it