La radicale estraneità della condizione di schiavo, per chi è nato libero, indusse Frederick Douglass a mettere in guardia il lettore ideale (bianco) della sua celebre autobiografia, proponendo di situarlo «in una situazione difficile: la situazione in cui ero io. Solo allora – aggiungeva – «capirà fino in fondo le sofferenze e saprà provare comprensione per lo schiavo fuggiasco stremato dalla fatica e segnato dalla frusta». Nel 1979, Octavia E. Butler prese alla lettera questa proposta e pubblicò Legami di sangue, un romanzo che per la capacità di descrivere con immediatezza la brutalità e le tensioni della «peculiar institution» si è imposto come un classico della letteratura americana del secondo Novecento.

Ora, una nuova traduzione firmata da Veronica Raimo (Sur, pp. 357, € 18.00) ne valorizza al meglio la prosa intensa e coinvolgente, in grado di riportare in vita senza reticenze o timori un passato ancora dolorante, specchio deformato, ma non troppo, di un presente niente affatto liberato da istanze di discriminazione e di sfruttamento.

Una cupa fantasia
Catturato dalla voce limpida e diretta con cui la protagonista Dana, aspirante scrittrice afroamericana sposata a uno scrittore bianco, rievoca le incredibili vicende vissute tra giugno e luglio del 1976, il lettore si imbatte subito in una affermazione raggelante: «L’ultima volta che sono tornata a casa ho perso un braccio, il sinistro». Poco più avanti, con un certo sgomento, si apprende come il posto chiamato «casa» da Dana non sia l’appartamento in California dove si è da poco trasferita col marito, bensì la piantagione in Maryland che nella prima metà dell’Ottocento apparteneva a Rufus Weylin, antenato schiavista di cui ignorava l’esistenza.

In seguito a inesplicabili e ripetuti viaggi nel tempo, infatti, Dana si ritrova a trascorrere diversi mesi nel Sud degli anni precedenti la Guerra civile, dove è trattata come schiava e costretta a subire violenze e umiliazioni sempre più degradanti. Tutta la sua cultura e la conoscenza della storia non l’hanno minimamente preparata all’esperienza disumanizzante della schiavitù, capace di stravolgere e deformare persino i legami più intimi. Pur nutrendo sentimenti a dir poco ambivalenti nei confronti del progenitore Rufus, infatti, Dana sviluppa un forte attaccamento verso gli altri schiavi della piantagione e arriva paradossalmente a provare un senso di appartenenza verso quelli che scopre essere i luoghi di origine della sua famiglia, mentre la propria vita nel presente finisce per sembrarle estranea e insignificante.

Butler ha precisato più volte che, a differenza di altri suoi lavori, Legami di sangue non è un romanzo di fantascienza, bensì una «fantasia cupa», dove «il viaggio nel tempo è solo un meccanismo per portare il personaggio a confrontarsi con le proprie origini»: lo ha esplicitato per scongiurare aspettative fuorvianti nei lettori, e il rischio di indebolire il senso di un’opera in grado di muoversi con disinvoltura tra generi diversi come il romanzo storico, l’autofiction e la slave narrative. In effetti, quando nel 1994 uscì per la prima volta in Italia nella collana di fantascienza «Urania», il romanzo passò quasi inosservato; solo lentamente conquistò la fama che gli spetta tra gli iniziatori delle neo-slave narratives, situandosi alla partenza di un ideale percorso narrativo di riflessione sullo schiavismo che conta pietre miliari della letteratura statunitense, da Flight to Canada del 1976 di Ishmael Reed a Amatissima di Toni Morrison, fino ai più recenti La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead e Lo schiavista di Paul Beatty.

Nel romanzo non mancano cortocircuiti indirizzati a sottolineare inquietanti parallelismi tra la California emancipata degli anni Settanta e il Sud schiavista del primo Ottocento: Dana chiama, per esempio, l’agenzia interinale che le dà lavoro «il mercato degli schiavi»: sebbene i disoccupati e gli indigenti che ogni giorno affollano l’agenzia non vengano propriamente trattati come schiavi, Dana specifica con sarcasmo che nei casi più disperati sono ugualmente costretti a versare il proprio sangue: lo vendono in cambio dei soldi per il pranzo.

Elemento vitale e mortifero al tempo stesso, fin dal titolo il sangue è metafora di continuità delle generazioni e indissolubile obbligo famigliare, ma anche simbolo di colpe da scontare e veicolo di ferite mai sanate. Dana è vincolata al suo progenitore schiavista da un legame così forte che permette all’uomo di evocarla dal futuro ogni volta che si trova in pericolo di vita, ma entrambi sembrano vivere una situazione senza via d’uscita: nonostante il comportamento di Rufus le appaia disumano, infatti, la protagonista si sente obbligata a proteggerlo per salvaguardare la sua discendenza e quindi, di riflesso, la propria esistenza, oltre che per non aggravare la situazione già precaria degli schiavi della piantagione, i quali, morto il padrone, rischierebbero di essere venduti separatamente a proprietari ancora più crudeli.

Non sorprende che Octavia Butler abbia concepito l’idea del romanzo dopo aver sentito un giovane militante del Black Power Movement accusare le generazioni precedenti di aver subito violenze e soprusi senza reagire; l’attivista concluse il discorso dichiarando che avrebbe voluto ammazzare tutti, se non fosse che gli sarebbe toccato cominciare dai propri genitori. «Il punto – ha dichiarato l’autrice americana a proposito delle intenzioni che hanno informato il suo romanzo – era prendere una persona nera dei giorni nostri e farle vivere la schiavitù, non solo come faccenda personale: farla tornare indietro e renderla parte dell’intero sistema».

Gioa e lutto
È significativo che Dana compia l’ultimo viaggio nel tempo il 4 luglio 1976, bicentenario della Rivoluzione americana. In un’appassionata orazione pronunciata nel 1852 proprio in occasione della festa dell’indipendenza, Douglass accusò i bianchi che l’avevano invitato a parlare: «Questo Quattro di luglio è vostro, non mio – affermò. Voi potete gioire, io devo portare il lutto».

Debilitata da traumi psicofisici e segnata dalle cicatrici indelebili delle frustate ricevute, Dana conclude il processo di menomazione che le viene inflitto subendo il taglio del braccio preannunciato all’inizio: un elemento narrativo con cui Butler sembra voler alludere al fatto che una mutilazione duratura è il prezzo salato dell’«indipendenza» raggiunta da tutte le donne afroamericane: «Non potevo lasciare che tornasse com’era prima» ha dichiarato a proposito di Dana, perché «la schiavitù nel periodo prebellico non lasciava le persone intere».