Scuola

Ocse, l’Italia taglia la scuola ma i prof resistono

Ocse, l’Italia taglia la scuola ma i prof resistono/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2014/09/09/10desk1f01 tam tam maturita scuola superiore maturita agnesi fc 0002 – Tam Tam

Istruzione Il rapporto «Uno sguardo all’istruzione» 2014. Nei primi anni della crisi l’Italia è stato l’unico paese a tagliare i fondi a scuola e università. Gli stipendi dimagriscono, aumenta la sfiducia tra gli studenti. Cresce però la qualità dell’istruzione di base grazie all’impegno dei docenti, ma si rafforzano le diseguaglianze nell’accesso al sapere

Pubblicato circa 10 anni faEdizione del 10 settembre 2014

Primo tra i paesi Ocse per tagli all’istruzione, l’Italia si aggiudica anche per il 2014 il primato per la crescita della dispersione scolastica, il deludente tasso dei laureati e quello degli insegnanti meno pagati. Una lettura attenta del rapporto «Uno sguardo all’istruzione 2014» pubblicato ieri dall’Ocse permette di dimostrare che la crescita delle diseguaglianze è la conseguenza diretta dei tagli alla spesa pubblica per l’istruzione fatti dal governo Berlusconi tra il 2008 e il 2012 (8,4 miliardi di euro alla scuola, 1,1 all’università, per un totale di 9,5 miliardi).

Questa operazione ha rafforzato una tendenza inaugurata fin dal 2000. Tra i 34 paesi esaminati, l’Italia è l’unico paese che ha registrato una diminuzione della spesa pubblica per le istituzioni scolastiche tra il 2000 e il 2011 (8 anni governati dal centro-destra e 2 dal centrosinistra) ed è l’unico paese tra quelli capitalisti dov’è stata registrata la riduzione più cospicua del volume degli investimenti pubblici: il 5%.
Con l’avvento della crisi, proprio nel momento in cui tutti gli altri paesi hanno investito sulla conoscenza (+25% la Germania, +41% la Finlandia, tra i paesi Ocse la media è del 38%), il nostro paese ha tagliato la spesa del 3%.

La decisione di strozzare l’istruzione pubblica è stata presa prima dell’attacco berlusconiano senza precedenti nella storia italiana, e ha trovato in quel governo una radicale applicazione. Nel 2011 la spesa per gli studenti di tutte le scuole era inferiore del 4% rispetto al 1995. Con i tagli Gelmini e Tremonti è crollata del 12%. Questa percentuale sarebbe peggiore se non fosse aumentato il finanziamento privato. Per l’Ocse è quasi raddoppiato tra il 2000 e il 2011: nel 2000 il finanziamento pubblico era pari al 94%, nel 2011 all’89%.

Questi dati sono tuttavia lacunosi. L’aumento deriva da un aumento delle tasse universitarie: per la Flc-Cgil del 75%. E poi dal progressivo disivestimento sul diritto allo studio: tra il 2012 e il 2013 il fondo per le borse di studio è sceso da 163 a 151 milioni di euro per arrivare a circa 113 milioni. I privati di cui parla l’Ocse sono in realtà le famiglie che suppliscono ai tagli dello Stato, finanziando gli studi dei figli.

Questa situazione ha peggiorato le condizioni degli insegnanti delle elementari e medie. Per l’Ocse tra il 2008 e il 2012 le loro buste paga sono diminuite in media del 2%. Dal 2005 al 2012 quelle dei docenti di ogni grado, e con 15 anni di esperienza, sono state taglieggiate del 4,5%. È la «spending review» in salsa gelminiana: risparmiare sui costi salariali, tagliare le cattedre e aumentare gli alunni per classe del 15% nella primaria e del 22% nella scuola media.

Nel frattempo è stato bloccato il contratto dal 2009 insieme al turn-over. Nel 2012 il 62% dei professori aveva più di 50 anni (48% nel 2002). È la più alta percentuale di insegnanti over 50 dei paesi Ocse. Malpagati ed emarginati, i docenti hanno tuttavia continuato a lavorare in classi sempre più numerose («pollaio») e con profitto. La qualità dell’istruzione di base è aumentata. Con la Polonia e il Portogallo, l’Italia ha ridotto tra il 2003 e il 2012 la quota di 15enni in grave difficoltà in matematica. Il dato ieri è stato interpretato in maniera fuorviante: la qualità non dipende dal numero degli insegnanti o dai fondi, ma dal loro «merito». È invece possibile che sia un atto estremo di resistenza.

I tagli alla spesa pubblica destinata all’istruzione hanno influito, direttamente o indirettamente anche sul tasso degli abbandoni scolastici. Tra il 2010 e il 2012, quando le forbici erano in azione, è aumentata la quota dei 15-19enni che non vanno a scuola. Nel 2010 il tasso di iscrizione era dell’83,3% ed è sceso all’80,8%, contro una media Ocse dell’83,5%. Nel 2012 solo l’86% dei 17enni era ancora a scuola e si stima che solo il 47% dei 18enni si iscriverà all’Università (51% del 2008; 58% media Ocse e del G20). La percentuale dei 25-34enni che non ha terminato la scuola superiore è passata dal 41% del 2000 al 28% del 2012 (17,4% Ocse).

Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini ieri si è detta preoccupata per i tagli e i loro effetti, ma non risulta che l’esecutivo si proponga di rifinanziare il sistema. Ha detto che l’assunzione di 150 mila precari nella scuola invertirà la tendenza, ma ancora non si sa dove troverà i 4,1 miliardi di euro necessari a regime.

Quello che è certo è che le «linee guida» del «patto educativo» cancelleranno gli scatti di anzianità, strumento di resistenza contro l’impoverimento dei docenti, destinando risorse al merito del 66% dei docenti. E non di tutti. Gli stipendi aumenteranno vincolando il loro reddito alla «produttività» e al volere dei «presidi-manager». Giannini ha inoltre ribadito l’intenzione di rafforzare il «modello tedesco» dell’alternanza scuola-lavoro, portando le aziende nelle scuole tecniche e professionali.

Con questo strumento parziale si cerca di reagire alla disoccupazione giovanile (42,9%), offrendo un’alternativa al 24,6% dei giovani «neet» o al 53% dei 19enni che non si iscrivono all’università. Il problema è invece di sistema: i laureati sono aumentati dall’11% al 22% (il 62% dei nuovi laureati è donna, erano il 56% nel 2000), ma l’Italia resta al 34° posto su 37. Ha fallito la riforma «Berlinguer-Zecchino», che voleva rafforzare la «competitività» di questo sistema. Si dovrebbe invece puntare sul valore del titolo di studio.

L’Ocse dimostra che una laurea, o un diploma, servono per garantirsi un reddito e la speranza di una minore disoccupazione in un quadro di generale precarietà. Una prospettiva indebolita dall’attacco all’istruzione pubblica, dalla deregolamentazione del mercato del lavoro e dalla crisi che hanno aumentato le differenze di classe. Il 65% dei 25-34enni laureati ha almeno un genitore laureato, il 23% nemmeno uno. Il divario di reddito tra laureati e diplomati superiori è cresciuto due volte in più, come quello tra diplomati superiori e chi non è diplomato.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento