La superiorità della spesa previdenziale rispetto a quelle degli altri Stati europei è sempre stata indicata come l’anomalia del welfare italiano. Su questo sentiero procede, ancora una volta, il pensions outlook 2014 dell’Ocse secondo il quale l’Italia è al primo posto tra i paesi industrializzati per l’incidenza delle pensioni sulle casse statali (il 32%), anche se le ultime riforme favoriscono la sostenibilità finanziaria del sistema.

Per invertire la tendenza la ricetta è sempre la stessa: aumentare le tasse sui redditi dei pensionati (secondo l’Istat il 41% non supera i mille euro e non riesce ad arrivare alla fine del mese) e aumentare l’età pensionabile effettiva. Nonostante la riforma Fornero, e i suoi errori catastrofici (vedi gli esodati), l’età media di chi va in pensione in Italia continua a essere bassa: 61,1 anni per gli uomini, 60,5 per le donne, rispetto alla media Ocse rispettivamente del 64,2 e del 63,2 per cento. C’è poi l’invito a aumentare il tasso di partecipazione al mondo del lavoro degli ultra 55enni, che in Italia è aumentato seguendo i ritmi europei. «Aumentare l’età effettiva di pensionamento è una delle riforme che può aiutare i paesi in tempo di crisi, ma sono necessari maggiori sforzi per assistere i lavoratori anziani a trovare e mantenere posti di lavoro». Immancabile è l’appello al ricorso alla previdenza integrativa che è aumentata tra i dipendenti dal 2007, coinvolgendo nei paesi Ocse 12,2 milioni di persone.

Il primato italiano nei paesi industriali, in realtà, non è tale da far scattare l’allarme rosso. Lo ammette persino l’Ocse che nel report diffuso ieri ha registrato la crescente sostenibilità del sistema italiano. Le percentuali sono infatti ben diverse: nel 2013 lo Stato ha speso 272,7 miliardi in trattamenti previdenziali. Unico paese dell’area Ocse l’Italia include in questa spesa il pagamento del Tfr, pari all’1,7% del Pil, e quello per i prepensionamenti che in realtà sono ammortizzatori sociali. La spesa pensionistica reale sarebbe dunque inferiore rispetto a quella registrata nel report. La sua incidenza sul Pil scenderebbe al di sotto della media europea (che è del 15,2% nell’UE a 15, del 15% nell’UE a 27), come ha dimostrato il rapporto sullo Stato sociale 2013 curato da Roberto Felice Pizzuti.

Nel 2015 la spesa pensionistica italiana arriverà al 14,9% del Pil. Per il futuro, il rapporto si collocherà a un livello del 16% nel quadriennio 2012-2015 per stabilizzarsi al 15,7% entro il 2050. Valori in linea con gli altri paesi, se non inferiori. Anche quest’anno l’Ocse pone il problema della sostenibilità del sistema per quanto riguarda i giovani, sempre più precari e impossibilitati ad entrare nel «mercato del lavoro». Quello che nel frattempo avranno versato non servirà a garantirgli una pensione. Questa è la contraddizione drammatica in cui sopravvivono i sistemi pensionistici. Ai governi viene consigliato di promuovere «campagne di sensibilizzazione per ricostruire la fiducia nei giovani».

Per garantire loro una tutela bisogna nuovamente riformare le pensioni. Non nel senso di ricostruire un principio di giustizia sociale, e di inclusione, ma per allungare l’età pensionabile e le tasse a chi una pensione ce l’ha già. La contraddizione verrà aggravata dalla crisi: l’allungamento dell’età pensionabile non amplierà l’occupazione nella popolazione in età attiva dato che la crescita continuerà a restare «anemica», la precarietà diffusa e di massa. Senza contare che questo sistema non garantisce un reddito dignitoso a chi, nonostante tutto, è riuscito ad andare in pensione.