L’1% più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta (definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività), praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. Questa è la fotografia della distribuzione della ricchezza nel Belpaese secondo lo studio diffuso ieri dall’Ocse.

In poche parole, se vogliamo tradurla in numeri assoluti, circa 600 mila famiglie italiane (la crème dei ricchi) detengono un patrimonio pari a tre volte quello detenuto da 24 milioni di persone (la fascia più povera).

La crisi ha contribuito ad aumentare le differenze, ad aprire la forbice tra ricchi e poveri: la perdita di reddito disponibile tra il 2007 e il 2011 è stata ben più elevata(-4%) per il 10% più povero della popolazione rispetto al 10% più ricco (-1%).

La ricchezza nazionale netta, dice ancora l’organizzazione parigina, in Italia è distribuita in modo molto disomogeneo, con una concentrazione particolarmente marcata verso l’alto. Il 20% più ricco (primo quintile) detiene infatti il 61,6% della ricchezza, e il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60% si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo 0,4% per il 20% più povero.

Anche nella fascia più ricca, inoltre, la distribuzione è nettamente squilibrata a favore del vertice. Il 5% più ricco della popolazione detiene infatti il 32,1% della ricchezza nazionale netta, ovvero oltre la metà di quanto detenuto del primo quintile, e di questa quasi la metà è in mano all’1% più ricco.

In Italia «la povertà è aumentata in modo marcato durante la crisi», in particolare per giovani e giovanissimi, dice l’Ocse. L’aumento del cosiddetto “tasso di povertà ancorata” (soglia fissata all’anno precedente) è stato di 3 punti tra il 2007 e il 2011, il quinto più elevato. La fascia con il maggior tasso di povertà sono gli under 18, con il 17% 4 punti in più della media Ocse, seguita dalla fascia 18-25, con il 14,7%, 0,9 punti sopra la media.

Il fenomeno è evidente fra i bambini (incidenza di povertà del 17% rispetto al 13% della media Ocse) mentre fra gli over 65 il livello è del 9,3% (contro una media del 12,6%). Il 40% della popolazione opera in condizioni «non standard», cioè senza regolari contratti a tempo indeterminato. E le diseguaglianze restano forti fra uomini e donne: solo il 38% delle lavoratrici ha un impiego a tempo pieno contro la media Ocse del 52%.

Particolarmente penalizzati, come è prevedibile, sono i lavoratori atipici. Il tasso di povertà i «non-standard» (autonomi, precari, part time) è al 26,6%, contro il 5,4% per quelle di lavoratori stabili, e il 38,6% per quelle di disoccupati. In particolare, se si fissa a 100 il guadagno medio dei lavoratori con posto fisso, quello degli atipici si ferma a 57, con grosse disparità tra le varie categorie (72 per un autonomo, 55 per un contratto a termine full time, 33 per un contratto a termine part time).

E si resta precari a lungo: tra le persone che nel 2008 avevano un lavoro a tempo determinato, 5 anni dopo solo il 26% era riuscito a ottenere un tempo indeterminato.

L’Italia è il però Paese Ocse con la minor percentuale di famiglie indebitate, il 25,2%, davanti a Slovacchia (26,8%), Austria (35,6%) e Grecia (36,6%), e ben lontana dai livelli delle altre due grandi economie dell’eurozona, Francia (46,8%) e Germania (47,4%), della Gran Bretagna (50,3%) e degli Usa (75,2%).

Le possibili soluzioni? La Cgil chiede una patrimoniale sui redditi e i patrimoni più alti, la Uil chiede il rinnovo dei contratti, anche quelli pubblici, e la restituzione del “maltolto” ai pensionati.