Nella chiesa veneziana di san Lorenzo, alcuni schermi racchiudevano porzioni di «fluidi» blu notte. Al loro interno, si muovevano delle linee che segnavano rotte liquide, infrangendo correnti e onde: erano le sette traiettorie alla base della ricerca di Oceans in Transformation (dal Mare del Nord al Pacifico Equatoriale, fino ai vortici dell’oceano indiano) e costituivano il cuore della mostra a Ocean Space, il luogo «ambasciata» delle acque – non a caso a Venezia – fondato da Tba21 Academy come un osservatorio permanente sugli oceani e la loro salute. Tanto che ogni esposizione – proprio come Territorial Agency: Oceans in Transformation di cui a marzo verrà proposto il secondo capitolo – non è che un avamposto per nuove esplorazioni. Un punto da cui partire e non certo di approdo. L’architetto e urbanista John Palmesino (insieme a Ann-Sofi Rönnskog) evidenzia lungo quelle traiettorie spaziali la rete intricata dei processi ambientali ed economici in atto negli oceani, minacciati dalle attività umane.

Nel progetto gli oceani sono declinati sempre al plurale: per quale motivo?
Nella sua ascesa, l’Antropocene attraversa e rescinde territori e relazioni di lunga data, mescola e dissolve gli elementi che formano le strutture di coabitazione gli uni negli altri, moltiplicando e disperdendo gli spazi vitali. L’accoppiamento tra la vita e il suo ambiente planetario sta entrando in una complessa instabilità. L’oceano mondiale è un vasto sistema di acque interconnesso. Eppure le sue trasformazioni sono molte. Numerosi sono anche i modi per percepirli e indagarli: ognuno mobilita specifiche conoscenze e competenze, facendo riferimento a logiche, immaginari, strumenti diversi e spesso divergenti. La loro diversità non è solo una molteplicità di punti di vista. Sebbene esista un solo vasto specchio d’acqua con circolazioni interconnesse, la comprensione umana è frammentata e dispersa e produce una molteplicità di oceani apparentemente incompatibili. Questa è una condizione «cosmopolitica»: una politica di ricomposizione di più universi. Le immagini che presentiamo aiutano a connettere i differenti gruppi e oceani.

John Palmesino e Ann-Sofi Rönnskog

L’oceano come elemento naturale viene indagato anche e soprattutto nella sua interazione con l’«umano». Può essere il luogo delle «storie» di diverse civiltà e oggi più che mai. Cosa si può dire al riguardo?
La distinzione tra i collettivi umani e non umani è uno degli aspetti che il progetto articola e dissolve: in un periodo di caos climatico-

caratterizzato dalla simultanea trasformazione delle circolazioni e interdipendenze dei processi che caratterizzano la Terra, e dall’instabilità delle istituzioni, le culture, le industrie e i mercati umani – proponiamo di riconsiderare come assemblare e comporre nuove forme di coabitazione. È in questo senso che il progetto analizza allo stesso tempo le trasformazioni degli oceani e delle strutture di coerenza degli spazi di relazione umana. Non è più concepibile la distinzione tra le storie umane e la nuova entità che ha fatto irruzione: il pianeta. È un’entità difficile da delineare. Il progetto che proponiamo è un’indicazione di come poter divenire sensibili a questa nuova forma.

Fra tutte le traiettorie che avete analizzato, quale pensa sia la più direttamente collegata al nostro futuro e perché?
Lo sono tutte: è il concetto di rischio stesso che dovrà cambiare nel futuro. Le traiettorie di Oceans in Transformation presentano una nozione di rischio attenta ai modi in cui ci possiamo districare dalla crescente massa della tecnosfera. La tecnosfera ha un ordine di magnitudine 5 volte superiore alla nostra massa, ed è il risultato di una vasta serie di decisioni di catturare risparmi e trasformare il futuro in debito che deve essere ripagato in termini di strutture di durata geologica. Ora il rischio è dominato da una concezione economica, che trasporta il futuro nel presente e lo rende calcolabile e aperto a «investimento». Non stiamo costruendo un futuro, ma meccanismi di controllo (economici e politici) per avanzare pretese sul futuro ed essere governati da esse. Le traiettorie che presentiamo sono un modo per riflettere, diventando sensibili alle molteplici trasformazioni del pianeta (sono linee che collegano terra e acqua) e istigando nuove forme di apprendimento e adattamento.

Perché ritenete che sia così importante comunicare questa grande installazione itinerante, molto ambiziosa nei suoi fini, che si arricchisce di contributi e che continuamente si aggiorna con l’apporto di nuove discipline?
Oceans in Transformation si apre con un monito e un’intimazione. La linea di luce che marca sulla facciata della chiesa di San Lorenzo a Venezia il futuro livello del mare, dovuto all’energia incapsulata nel sistema-terra dalle emissioni dovute ai combustibili fossili. Se riusciremo a contenere il riscaldamento del pianeta ben entro 2°C sopra i livelli preindustriali, come dagli accordi di Parigi, aree oggi occupate da più di seicento milioni di persone, e dalle quali dipendono più di un miliardo e mezzo di persone, verrà sommerso dall’innalzamento dei mari. Il monito è diretto alle conseguenze delle attività attuali, l’intimazione è indirizzata a ripensare al distanziamento tra mare e terra, e riconsiderare relazioni tra modi di vita, tra differenti saperi e ambienti come a un progetto collettivo.

Lei è un architetto e un urbanista, ma si è affidato a una «struttura mobile» come l’acqua…
Assieme ad Ann-Sofi Rönnskog abbiamo sviluppato diversi progetti dove indichiamo come l’architettura sia una relazione tra le forme istituzionali e i flussi e processi materiali. Oceans in Transformation è un progetto di architettura in questo senso: come riformulare una nuova architettura per l’Antropocene? Come immaginare nuove forme di collegamento tra i processi del pianeta e le forme politiche e istituzionali? Come pensare con gli oceani?