È stata una buona Mostra Venezia 70? Direi di sì, almeno metà del concorso era di livello alto, con sorprendenti «rivelazioni» di cineasti, da Tsai Ming Liang a Philippe Garrel, Gianfranco Rosi, Miyazaki, Gitai, Kelly Reichardt, Errol Morris, ognuno dei quali continua a spiazzare la propria poetica di immaginario nel segno della riconoscibilità.

Ripetizione come differenza, una scommessa sensibile nell’era di passaggio del cinema, quando si guarda la sua «fine», e insieme la ricerca ostinata di altre forme, altri sistemi.
Forse Alberto Barbera ha commesso qualche errore di programmazione, difficile capire per fare un esempio il perché sono rimasti fuori concorso alcuni dei film più amati sul Lido dalla critica internazionale, divenuti subito l’appuntamento imperdibile, come quello di Wang Bing, o L’altra Heimat di Edgar Reitz o ancora At Berkeley di Frederick Wiseman.

Forse erano questi il «vero» rischio, che in molti hanno visto nella scelta di mettere in concorso due documentari, The Unknown Known di Morris e Sacro Gra di Rosi, peraltro grandi successi, a prova che la separazione stigmatizzata dal festival di Cannes, tra «documentario» e «finzione» è totalmente inesistente. Si tratta di cinema, e quello c’è o non c’è, in ogni caso. E non a caso in Italia gli esordi «fuoriclasse» nel lungometraggio arrivano da chi ha fatto documentari, lo scorso anno L’intervallo di Di Costanzo (quest’anno giurato in Orizzonti), Piccola patria di Alessandro Rossetto negli Orizzonti che ci sono apparsi più pensati.

At Berkeley, e quell’«a Berkeley» è una scelta precisa, perché come dice il regista, il doc non pretende di raccontare l’intero universo del prestigioso campus americano, ma semplicemente i fatti che mostra sono accaduti lì. Wiseman, che nel frattempo sta già preparando un nuovo lavoro sulla National Gallery a Londra, è tornato per questo film a girare in America, dopo i film parigini Crazy Horse e La Danse. Ed è tornato anche negli ambienti di altre sue opere, il primo riferimento che viene in mente è High School, ritratto dissonante del sistema scolastico americano nel Sessantotto. Allora erano le scuole superiori, oggi siamo in un campus ma soprattutto la geometria delle relazioni che interessa Wiseman appare diversa. Più del conflitto tra gli individui che ne sono parte, e l’istituzione, Wiseman pone l’accento sullo scontro che c’è tra l’istituzione stessa, e il sistema più vasto che è quello del paese. Berkley, campus pubblico, e tra i più prestigiosi d’America – le ragioni per cui il cineasta lo ha scelto – diviene nell’interezza del suo microcosmo il riflesso della politica sociale e culturale americana attuale. I tagli del governo di California hanno colpito duramente l’università, nonostante l’ottimismo del rettore dell’epoca – Wiseman filma il semestre dell’autunno 2010 – Robert J. Birgeneau palesi un certo ottimismo.

Wiseman riprende i consigli amministrativi – e la sua capacità di posizionare lo sguardo per coglierne l’elemento stridente è davvero fantastica – le lezioni, la vita quotidiana degli studenti, le loro discussioni, i momenti liberi, li vediamo fare jogging, leggere nel parco, ma anche gli operai e gli addetti delle pulizie. Ogni minimo dettaglio di quell’universo trova la sua rappresentazione, perchè la crisi dell’università coincide con quella di un paese, e delle sue idee. La sequenza in cui uno studente scoppia in lacrime nella sessione di assegnazione delle borse di studio, ci dice tutto sulla condizione di una middle class che non riesce più a assicurarsi il diritto allo studio. C’è questo in gioco infatti – e non è un problema solo americano – come cioè mantenere un alto livello di istruzione e difendere i valori della scuola pubblica, che al contrario di quanto sostengono le politiche neoliberiste, non è spreco di denaro inutile. È solo investendo nell’istruzione, rendendola non dominio per pochi che costringe chi non ha soldi a massacrarsi per pagare gli studi, che si può avere invece un paese vivo, capace di riflettere su di sé e di crescere anche nel conflitto.

At Berkeley tocca dunque i nodi del nostro mondo nel tempo della crisi, quando l’istruzione vuol dire le tasse, e la demagogica litania delle destre per abolirle, applaudita da tanti, che spalanca vuoti pericolosi altrove. Sarei contenta di pagare più tasse se questo garantisse il mantenimento dell’istruzione dice una studentessa. Lei è african american, viene da una storia che conosce miseria e marginalità, e provocando chiede agli wasp perchè oggi dovrebbe sentirsi investita della loro crisi, del fatto che all’improvviso si trovano là dove gli african american sono sempre stati, nella negazione del diritto allo studio e molto altro.

Conflitti, discrepanze, visioni del mondo; l’occupazione degli studenti contro un’amministrazione che minimizza forse un po’ troppo gli effetti delle restrizioni di finanziamenti. Ogni tassello che Wiseman innesta e rende cinema nel suo dispositivo filmico, è un pezzo del nostro contemporaneo. L’America, nelle sue contraddizioni profonde, antiche e irrisolte. Il nostro tempo neoliberista di ipocrisie.