Guardo i Tg e sento che di disoccupazione più non ce ne è. Come mai…? Così si potrebbe parafrasare, capovolgendone anche il senso, una celebre hit del neo ottantenne (a proposito: auguri!) Celentano, giusto di cinquant’anni fa, dopo avere assistito per l’intera giornata di ieri rimbalzare di rete in rete le nuove mirabolanti notizie sull’occupazione nel nostro paese.

Saremmo al livello più alto da 40 anni, sarebbe stato superato il picco precedente all’inizio della crisi che dal 2008 ci tormenta, segneremmo la perfomance migliore di tutta l’Eurozona.

Questi, e altro ancora, i messaggi veicolati dai mass media, cui si aggiungono dichiarazioni e tweet squillanti di Renzi e di Gentiloni, appena attenuati dal più prudente Padoan. Ci disegnano un mondo così lontano da quello reale, misurabile empiricamente e quotidianamente da sollevare non pochi sospetti.

Possibile che come per l’inflazione, così è anche per la disoccupazione, ovvero c’è quella reale e quella percepita? Eppure, si dirà, l’Istat è una cosa seria. E infatti basta guardare dentro il suo rapporto che il sensazionalismo di queste ore ne esce parecchio ridimensionato. Senza dimenticare una precisazione importante che va sempre tenuta presente. I sistemi di rilevazione della occupazione sono viziati da un difetto di fondo di non piccola portata.

La qualifica di «occupato» viene conferita – come sta scritto nel Glossario accluso alla Rilevazione sulle Forze di Lavoro dell’Istat – a tutti coloro che nella settimana di riferimento «hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura», ovvero anche se non sia stata retribuita. Questo fa sì che fra «occupati» e posti di lavoro effettivi corra una bella e sostanziosa differenza, risultando i primi sensibilmente più numerosi dei secondi.

Si badi bene che qui non si sta parlando di posti di lavoro permanenti, ma anche di quelli che pur essendo precari almeno comportano qualche giorno o settimana di lavoro continuativo.

Secondo l’ultima rilevazione Istat gli «occupati» ammontano, a novembre 2017, a 23milioni e 183mila. Di più che ad aprile del 2008 (quando erano 23,179 milioni), un picco mai superato dalle serie storiche Istat iniziate nel 1977. Ma gli stessi autori del rapporto ci avvertono che non è proprio il caso di fare capriole di gioia, dal momento che gli ultimi nove anni hanno pur comportato una crescita demografica che ridimensiona il tasso. L’aumento vantato a novembre è comunque di 65mila unità rispetto a ottobre.

Ma che cosa sta esattamente aumentando? Anche qui ci risponde l’Istat stesso.

Se allarghiamo lo sguardo al periodo settembre-novembre dell’anno passato si registra un incremento occupazionale rispetto al trimestre precedente di 83mila unità che però è concentrato soprattutto tra gli over 50 – il solito effetto della legge Fornero che costringe a procrastinare l’abbandono dal lavoro – e in misura percentualmente minore tra i 15-24enni, mentre si registra un forte calo tra i 25-49enni, un tempo la fascia forte del mercato del lavoro. Ma soprattutto, ci dice testualmente il comunicato emesso ieri dall’Istat, «l’aumento è determinato esclusivamente dai dipendenti a termine, mentre calano i permanenti e rimangono stabili gli indipendenti».

Un monumento al precariato, una pietra tombale per il Jobs Act, tale da seppellire anche i cinguettii di Renzi. È solo in questo modo che il nostro tasso di disoccupazione – già ingannevole di per sé per i motivi sopraddetti – scende di un decimale di punto (all’11%) e la disoccupazione giovanile cala di 1,3 punti, sistemandosi al 32,7%, dato che solo degli irresponsabili possono considerare un successo, dal momento che ci colloca agli ultimi posti in Europa.

Del resto già la Caritas in un rapporto dello scorso novembre, dal titolo emblematico «Futuro anteriore» ci parlava di disoccupazione e povertà giovanile, supportato dallo stesso Rapporto Istat del dicembre. Ovvero la forbice delle diseguaglianze si allarga continuamente e la povertà, relativa e assoluta, aumenta. Se il lavoro di per sé non garantisce la fuoriuscita dalla povertà – ce lo dice il fenomeno dei working poor a causa dei bassi salari e della precarietà – certamente la disoccupazione la incrementa.

L’aumento della precarietà porta con sé un’altra conseguenza: la dequalificazione del lavoro. I settori più in crescita sono «noleggio, agenzie di viaggio, servizi di supporto alle imprese, servizi di alloggio e ristorazione». Nel quadro Ocse l’Italia è l’unico paese – malgrado resti la seconda forza industriale dell’Europa – dove la ripresa (da noi davvero modesta) non ha favorito la crescita di professioni ad alte qualifiche. Del resto siamo penultimi in Europa per numero di laureati.

Così accade nel paese di Spelacchio.