In questi giorni l’occupazione della Cisgiordania e Gaza compie 50 anni, più di venti dei quali segnati dal tentativo frustrato di implementare gli accordi di ‘pace’ (gli accordi di Oslo) che dal 1993 avrebbero dovuto creare le basi per la costituzione di uno Stato palestinese accanto allo stato israeliano, realizzando la visione di “due Stati per due popoli”.

In realtà, gli accordi di Oslo hanno prodotto soltanto un embrione asfittico di apparente sovranità palestinese in Cisgiordania, l’assedio permanente di Gaza e consentito nel frattempo il quasi completamento del progetto radicale di colonizzazione ebraica di tutta la Palestina (tranne Gaza) cominciato agli inizi del ‘900.

L’occupazione israeliana da Oslo in poi si è fatta più aggressiva, più divisiva, più pervasiva segnando ogni minuscolo aspetto della vita quotidiana della popolazione palestinese. I governi israeliani (non importa se di destra o di sinistra) hanno messo in atto una violenta politica di confisca delle terre palestinesi in Cisgiordania allo scopo di accelerare in modo drammatico la costruzione di nuovi insediamenti per i coloni.

Per collegare gli insediamenti fra loro e con Israele, gli israeliani hanno costruito un discriminatorio sistema stradale che ha ridotto la mobilità quotidiana dei palestinesi ad un caotico calvario per favorire i veloci spostamenti dei coloni.

La Cisgiordania del dopo Oslo è solcata da 59.22 km di strade e superstrade ad uso esclusivo degli israeliani che permettono loro spostamenti bypassando le terre abitate palestinesi.

Il presente che i palestinesi vivono è un presente coloniale, caratterizzato da una politica sia di “spazio-cidio” sia di “tempo-cidio”. Ovvero il tempo e lo spazio sono divenuti esperienze parallele per i coloni israeliani e per la popolazione palestinese: ipermobilità e connettività per gli israeliani che si spostano agilmente tra le colonie e verso Israele grazie ad una rete di superstrade veloci; attese infinite ai checkpoint, immobilità e segregazione per i palestinesi con i loro tempi di spostamento che si dilatano all’infinito per gli ostacoli e la frammentazione territoriale. Non solo il loro spazio e’ occupato, frammentato, sconnesso, quindi, ma anche il loro tempo.

Alcuni dati possono aiutare a comprendere quello che appare chiaro a chiunque abbia scorso una mappa della Cisgiordania del presente. Secondo i dati della associazione israeliana per i diritti umani B’tselem, vi sono oggi 98 checkpoint stabili ai ‘confini’ della Cisgiordania e Gaza, mentre 59 sono i check-points interni alle terre palestinesi.

A questi si debbono aggiungere i numerosi punti di controllo mobili ed estemporanei, che consegnano la mobilità e la quotidianità palestinese ad un sistema il quale, oltre che violare platealmente il diritto internazionale, implementa un sistema di controllo caratterizzato da imprevedibilità ed arbitrarietà, due tratti essenziali delle politiche di regimi coloniali e dittatoriali, come ci ricorda Hannah Arendt.

I coloni insediati da Israele nelle circa 127 colonie costruite in violazione del diritto internazionale in Cisgiordania sono quasi 600.000, senza contare le frange di coloni più estemisti spesso spinti da fondamentalismo religioso, che vivono in decine di outpost non ufficialmente autorizzati dallo Stato israeliano, ma che tuttavia godono di protezione dell’esercito, nonchè di servizi sociali e scuole.

Come è intuibile per i palestinesi questa politica marca chiaramente il territorio che Israele intende annettersi o si è di fatto già annessa unilateralmente, dato che gli accordi di Oslo non contengono nessun meccanismo per bloccare queste annessioni di territorio unilaterali.

Il muro di separazione, o muro dell’apartheid, non solo espropria ulteriore territorio palestinese annesso anch’esso ad Israele e alle sue colonie, ma separa e racchiude numerosi villaggi, chiudendo ai palestinesi l’accesso non solo all’esterno, ma anche alle proprie terre.

Queste possono essere ora coltivate solo in certi tempi stabiliti dall’occupazione e attraversando complicati sistemi di porte e cancelli approntati sul muro stesso, se si sono ottenuti i relativi permessi. Il 95 percento della barriera inoltre ingloba altra terra, dato che non si tratta di una linea di cemento che scorre sulla linea verde (la linea dell’armistizio che costituirebbe il confine tra lo Stato palestinese e quello israeliano in un futuro assetto) ma piuttosto di un elaborato sistema di cancelli elettronici, torri di osservazione e aree di controllo situati su una striscia di circa 300 metri di terra.

Poco meno del 10% della Cisgiordania si trova oggi inoltre schiacciato tra il muro di separazione e la linea verde. In seguito all’annessione unilaterale di Gerusalemme Est, le frontiere della città si sono espanse di circa tre volte includendo circa 28 villaggi palestinesi, i cui abitanti si trovano in una condizione alienante, costretti a sottostare ad un rigidissimo regime di ‘permessi di residenza’ che richiede estenuanti prove e documentazione in grado di comprovare che il ‘centro della propria esistenza’ si svolge nei luoghi di residenza, pena la revoca dei permessi stessi, sorte toccata a più di 14.000 palestinesi fino ad ora.

Ai palestinesi coniugi con diversi status ‘legali’ non è permesso ricongiungersi se non per brevi periodi, così che sono stati riportati casi drammatici di donne che pianificano i loro parti cesarei nei periodo in cui ai mariti è concesso di rimanere nelle aree ‘sequestrate’, in particolare tra il muro e la linea verde.

Questa architettura dell’occupazione israeliana ha finito col riconfigurare profondamente la geografia della Cisgiordiania rendendo inimmaginabile la costituzione di uno Stato palestinese. Se si guarda alla sola superficie la metafora più adatta per descrivere la Cisgiordania e Gaza e’ oggi quella dell’arcipelago, un agglomerato di terre ed enclavi divise e scollegate tra loro.

Ma il progetto coloniale israeliano, come Eyal Weizman descrive nel suo magistrale volume Hollow Land. Israel’s architecture of occupation (Verso Books 2012), non è tuttavia completamente comprensibile se non attraverso una lente tridimensionale.

Oltre al muro di separazione, ai cancelli, alle superstrade, agli insediamenti che spesso si erigono strategicamente nelle aree collinari, dove le terre sono più fertili e dove è possibile un controllo del territorio dall’alto, l’occupazione scava sotto terra, dove tunnel si accaparrano risorse naturali e falde di acqua, mentre la linea d’aria è attraversata da superstrade elevate che rendono possibile la super mobilità dei coloni e la immobilità nel tempo e nello spazio della popolazione palestinese.

Non a caso il muro di separazione è costruito su linee che seguono la presenza di falde di acqua piovana nel sottosuolo, ed in modo da permettere il fluire dell’acqua, circa l’80% delle intere riserve del territorio, verso Israele.

Paradossalmente, tuttavia, l’effetto più evidente del caos strutturato dell’occupazione israeliana è la realizzazione di una contiguità e prossimità territoriale e materiale tra israeliani e palestinesi che rende il progetto di due Stati ormai impensabile. L’architettura dell’occupazione israeliana in altre parole si trova paradossalmente a dovere separare ciò che è sempre più inseparabile, a dividere ciò che è divenuto per suo stesso effetto, indivisibile.

E più Israele è’ intenta a separare e dividere, penetrando e spezzettando i territori occupati palestinesi, più la popolazione palestinese mette in atto strategie creative per evadere il soffocante e paralizzante sistema di controllo e immobilità.

Il caso forse più esemplare ed estremo è rappresentato delle centinaia di famiglie che in risposta alla politica di de-palestinizzazione della Galilea e di Gerusalemme Est hanno comprato casa o affittato proprietà in insediamenti illegali attorno alla città santa come French Hill or Pisgat Zeev (alcune fonti parlano addirittura di un 30% di Palestinesi residenti in quest’ultimo insediamento).

Ci sono altre fondamentali ragioni per cui la soluzione dei due Stati deve oggi essere profondamente ripensata. Uno stato in Cisgiordania e Gaza sotto gli auspici di Oslo metterebbe forse fine all’occupazione israeliana in quelle terre, ma lascerebbe al loro destino di cittadini di serie B i palestinesi di Israele.

Inoltre, il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, che secondo l’agenzia delle Nazioni Unite Unrwa (che dagli anni 50 si occupa della loro assistenza umanitaria) sono oggi circa 5 milioni distribuiti in 58 campi profughi e nella diaspora, è de-facto, anche se non de-iure, cancellato dallo scenario dei due stati.

La risoluzione del conflitto tuttavia non può prescindere dal riconoscimento del diritto al ritorno che rimane un imperativo da un punto di punto di vista politico e morale, oltre che del diritto internazionale.

Anche se Israele continua ostinatamente a rifiutare di riconoscere la propria responsabilità nella creazione del problema dei rifugiati, e a paventare scenari apocalittici come la fine di Israele (o meglio del suo carattere ebraico) se i profughi dovessero tornare, geografi palestinesi come Salman Abu Sitta hanno sfatato da tempo il mito secondo cui il ritorno dei profughi significherebbe l’estinzione degli israeliani.

Il 77% degli israeliani infatti risiede in un mero 15% del territorio di Israele e la stragrande maggioranza dei rifugiati che deciderebbe eventualmente di avvalersi del proprio diritto al ritorno, potrebbe riabitare le zone evacuate nel 1948, finora rimaste quasi totalmente non popolate.

Lo spazio-cidio e tempo-cidio rimangono quindi sfacciatamente un progetto che riflette una sistematica politica di insediamento coloniale da parte di Israele che tuttavia rischia di implodere nei paradossi e miti fomentati da un architettura dell’occupazione cosi pervasiva da rendere vano il sogno sionista di uno stato etnico religioso solo per gli ebrei israeliani.